20 gennaio 2015
8:54

A colloquio con Antonio Ceseri, l'Imi scampato alla strage di Treuenbrietzen

A colloquio con Antonio Ceseri, l'Imi scampato alla strage di Treuenbrietzen

FIRENZE - Stavolta Antonio Ceseri (la storia), soldato di marina classe 1924 deportato in Germania dopo l'8 settembre e sopravvissuto alla strage di Treuenbrietzen, non sarà a Cracovia per ricordare ai ragazzi cosa hanno vissuto lui e i suoi compagni. Ha preferito rimanere a casa. Nel cinema dove i testimoni dell'Olocausto il 21 gennaio si rivolgeranno ad oltre cinquecento ragazzi ci sarà per una sua testimonianza video, registrata poche settimane fa.

Cosa successe Antonio dopo l'8 settembre?

Eravamo in libera uscita. Al rientro trovammo i tedeschi che ci rinchiusero nell'Arsenale. Poi il 10 settembre ci fecero incamminare a piedi fino a Mestre. La strada era lunga, i bagagli pesanti e ogni tanto sentivamo un colpo di mitra e capitava di vedere qualcuno a terra in una pozza di sangue: chi non ce la faceva a camminare veniva ucciso sul posto. Passammo l'11 settembre in caserma, poi il giorno dopo ci caricarono sui treni e carri bestiame. C'era scritto: 8 cavalli. Ma dentro stavamo in ottanta persone.

Vi dissero cosa stava succedendo?

No, lo capimmo dopo, quando ci interrogarono in Germania e ci chiesero se volevamo tornare in Italia indossando la divisa tedesca. Impiegammo 5 giorni e 5 notti dal Brennero per arrivare a destinazione in un campo nei pressi di Hannover e per tutto il viaggio solo acqua da bere e niente da mangiare. Solo all'arrivo una scodella di zuppa calda. Era impossibile anche sdraiarsi, tanti eravamo in quel vagone. Vi lascio immaginare per i bisogni fisici: meno male che uno del gruppo aveva una baionetta nascosta, con cui fece un buco nel pavimento.

E poi?

I primi giorni dormivano sull'erba. Verso la fine di settembre ci fu proposto di tornare a combattere in Italia con l'esercito tedesco nella Repubblica di Salò. A me non piaceva fare il soldato, figurarsi con una divisa non italiana. Rifiutammo in molti: solo in 3-4 su dieci che chiamavano aderivano.

E l dopo giorni all'addiaccio ma in fondo nessun particolare maltrattamento, salvo la marcia del primo giorno, e una distribuzione del rancio in fondo regolare, cambi musica.

Ci trasferirono in 150 a Treuenbrietzen, sessantasei chilometri a nord di Berlino. Impiegammo due giorni e quello fu il nostro lager. Ci svegliavamo la mattina alle 4.30: la conta, un bicchiere di una roba calda che cosa era non si sa e non aveva sapore, poi un'altra conta e via in fabbrica. Producevamo munizione per pistole e fucili e nello stabilimento, notte e giorno, lavoravano in cinquemila. Non tutti prigionieri. Io fu assegnati ad un reparto tutto composto da donne: tedesche, ucraine, polacche, deportate anche loro ma libere. Poi tornavamo al campo e di nuovo conta e riconta. Il motivo ce l'avevano presto spiegato. "Se uno scappa, subir le conseguenze chi resta" ci dissero una volta, portandoci poi a vedere l'impiccagione di un prigioniero russo. Era un chiaro avvertimento.

Quanto sei rimasto là?

Fino al 23 aprile 1945, un anno e mezzo.

Patendo la fame

A dire il vero no. Mangiavamo una sola volta al giorno. Ma io era fortunato rispetto a chi lavorava fuori ed era addetto al trasporto dei materiali. In fabbrica c'era meno freddo e le donne ci offrivano ora una mela, una cioccolata o una zuppa in più. Nella baracca dove stavo morto di fame solo un compagno in tutta la prigionia, trovato esanime la mattina.

Le umiliazioni però non mancavano

Ogni pretesto era buono: sputi, calci e offese erano gratuiti e i due tedeschi e la donna che dirigevano il nostro reparto in fabbrica certo non li lesinavano.

Poi arrivarono il 21 aprile 1945 i soldati russi

Sentimmo un gran fracasso di cingoli. Ci fu un combattimento: morte tutte le guardie del lager e un soldato russo. Ma dopo qualche ora tornarono altri tedeschi. C'era una grande confusione. Erano in tre o quattrocento, armati fino ai denti, e ci misero in cammino fino ad un ponte sulla ferrovia. Due giorni di marcia. Poi ci fecero scendere in una specie di fossa: sopra una quarantina di soldati. E iniziarono a sparare.

Di sicuro pensasti che fosse la fine

Una scarica di mitra mi passò sopra i capelli ed un secondo mi forò la manica del cappotto. Io ero in mezzo alla fila: altri compagni mi caddero addosso e così mi salvai. Chi rimaneva ferito invocava la mamma e i tedeschi inveivano dicendo: "Dimmi dov'è che vado a trovarla". Lo capivo perché in quei mesi un po' di tedesco l'avevo imparato. Dopo aver smesso di sparare dissero anche: "Diamogli fuoco con la benzina". Pensai allora di uscire e farmi sparare. Poi un altro soldato per rispose: "La benzina no, serve per i carri armati. Passiamogli sopra con i cingoli". "No fece eco un altro non possiamo sprecare così il carburante". E così decisero solo di sotterrarci. La terra era soffice, era piovuto. Così io riuscii a lasciare un po di spazio per respirare".

Quanto sei rimasto così?

Dalla sera verso le sei fino all'alba. Poi, dopo ore che non si sentivano più voci e rumori, uscii. E come me fecero altri due: Edo di Chiaravalle e un altro di Ascoli Piceno. Gli unici tre superstiti su 130 soldati, tutti e tre illesi. Da allora siamo sempre rimasti in contatto. Con Edo ogni anno il 23 aprile festeggiavamo la 'rinascita', il nostro compleanno. Lui ha sempre parlato, da subito. Poi dieci anni fa sono morti.

E poi?

Ci rifugiammo la mattina in un boschetto lì vicino. Incontrammo un gruppo di soldati tedeschi disertori. Decidemmo di andare nella direzione opposta. Ci imbattemmo poi nei russi: un ufficiale era stato a studiare a Roma e parlava italiano. Eravamo pieni di sangue e terra. Ci fecero lavare e ci diedero indumenti nuovi. Io avevo preso la scabbia: dopo un po' di giorni sparì. Ci lasciarono liberi e ne approfittai per ripassare dal campo a prendere alcuni documenti dei compagni di stanza morti. Per portarli in Italia. Quando ad un certo punto mi imbatto nel paese nella ragazza tedesca che in fabbrica ci offendeva di continuo. Si mise in ginocchio pregandomi di non denunciarla ai russi. La lascia andare, forse feci male. Il 12 settembre 1945, più di quattro mesi dopo, finalmente tornammo in Italia. E dopo otto mesi ancora di Marina, prima del congedo, tornai a fare il mio lavoro in ferrovia.