Diritti
6 maggio 2011
16:36

A Santa Croce vite in fuga dalla guerra

SANTA CROCE SULL'ARNO (Pi) - "Sei sicuro di di voler conoscere la mia storia? Guarda che molto lunga e complicata". Non si pu dire che Kouadio non mi avesse avvertito. Il suo racconto coprir una bella parte della mia visita al centro di ospitalit di Santa Croce sull'Arno. Ne varr la pena, come credo converrete pi avanti. Ma prima di ascoltare la sua storia e quelle di Farouk e di Allassane Selifa, il caso di guardarsi un attimo intorno. E intorno c' l'Africa. Un intero continente in una stanza. Dalla Nigeria alla Guinea, dal Togo alla Costa d'avorio. E' l'Africa di chi l'ha lasciata senza volerlo. L'Africa di chi in fuga dalle mille guerre intestine che la insanguinano. L'Africa di chi si aggrappa al suo ultimo lembo pur di non staccarsene, ma anche qui trova guerra, l'ultima in ordine di apparizione. Arrivano tutti dalla Libia, quasi tutti da Tripoli. Avevano poco, mestieri saltuari, paghe irrisorie, una branda in un dormitorio per casa. Hanno dovuto lasciare anche quello. L'Italia non era un sogno, diventata una necessit .

 

 

Un barcone li ha portati a Lampedusa. Di qui a Foggia, stazione di transito, per un mese. Da due giorni sono qui. In una mano tengono la domanda per ottenere lo status di rifugiati. Nell'altra stringono ci che gli resta, un vuoto.

Del loro passato resta solo una fuga continua, con poche tracce. Del futuro neppure l'ombra. Un giovane ci chiede di tradurre un articolo di una cronaca locale: non per altro, sotto il titolo c' la sua foto. Un altro mi chiede di fotografarlo: ha una tuta che reca lo stemma dell'Italia. Vorrei dirgli che a vederla portata con tanta fierezza, il mio Paese ci fa una bella figura.

 

Ed eccoci a Kouadio. Se volete, la sua storia complicata la possiamo mettere tutta dentro un verbo: "scappare". Da dieci anni lui lo declina in mille modi. La sostanza resta quella.

2002. Il suo racconta comincia da l . All'epoca non ha ancora vent'anni. Nel suo Paese, la Costa d'Avorio, domina una forte instabilit politica tra il governo e l'apparato militare che lo appoggia da una parte e le forze ribelli dall'altra. A ondate lo scontro si trasforma in guerriglia civile. Sconsigliato, quando accade, frequentare le citt . La prima migrazione porta Kouadio nel villaggio dell'est da cui proviene la sua famiglia. Due anni di savana, in un luogo dove non c' nulla, fuorch la possibilit di sopravvivere. Poi, appena possibile, si ritorna a Bouak , una delle citt pi importanti del Paese. Kouadio fa l'allevatore, il padre il sarto. Almeno quando le condizioni lo permettono. Ma ci deve essere una valigia sempre pronta in casa e quando di nuovo si alzano segnali di guerra Kouadio riparte di nuovo, questa volte verso ovest per lavorare nelle piantagioni di cacao. In questo periodo diventa anche padre del piccolo Jean Jacques. Al centro, intanto, la situazione resta calda: un bombardamento devasta la sua casa di Bouak . In quel momento c' il suo fratello maggiore, che resta ucciso. La sua famiglia fugge di nuovo nella savana.

Ora Kouadio fruga in tasca e mi mostra un documento: un certificato elettorale. Non fa in tempo a usarlo, perch , siamo nel 2010, nell'aria vibrano ancora segnali di scontro. La madre di Kouadio pronuncia la frase pi innaturale: "Vattene figlio mio. Vai via, finch sei in tempo". Kouadio tentenna, non vorrebbe. Alla fine si decide ad andarsene in Libia. Sono passati 8 anni e almeno mezz'ora da quando ha iniziato a raccontarli. Il suo sguardo teso, ma non tradisce emozione, se gli guardo le mani, per , le vedo tremare e allora capisco che lui non sta parlando a un giornalista, sta cercando di scaricare un po' della sofferenza che si porta addosso.

E non finita, non finita affatto. In Libia gli offrono il benvenuto facendolo accomodare in carcere. Non ha commesso nessun reato, solo quello di esser l . Un mese dentro, giusto per rendersi conto meglio del destino offerto agli stranieri di colore. Poi un po' di lavoro, finalmente, in una fabbrica che produce succhi di frutta. Ma arriva la rivoluzione e entra in azione di nuovo quel verbo: "scappare". La sua condanna. Il resto storia recente. Il resto qui. Qui con la sua vita addosso, e nulla di pi . Qui con il suo esodo. E la sua solitudine."Esser solo mi dice - ormai il mio modo di vivere" . Gli stringo forte le mani. Vorrei passasse un po' di calore. Un briciolo di sole sulla sua vita in fuga.

 

Vicino a me ci sono anche Katia e Giuseppina. Katia la mediatrice culturale che mi aiuta con la traduzione, Giuseppina la responsabile del Comune di Santa Croce per l'area immigrati. Fra di noi non parole, solo sguardi, a sottolineare l'intensit di ci che stiamo ascoltando e il dono di umanit che ci giunge incontro.

Si continua. Prego, Allassane, tocca a te. Allassane, dal Togo, usa un decimo delle parole del suo compagno per raccontare pagine diverse della stessa sorte."Guerre" il termine che basta per dire il motivo per cui lascia il suo paese. "Travail" sufficiente a indicare la destinazione, una Libia evidentemente destinataria di troppe promesse.

Dentro poche parole si consuma un destino di sradicamenti e separazioni che gli fa brillare gli occhi: la moglie oggi in Ghana, il suo Paese d'origine. Con lei ci sono i tre bambini di cui una nata nell'agosto scorso. Una bambina che il padre non ha ancora potuto vedere.

Ed eccolo Allassane, a Tripoli, eccolo per strada come tanti altri a chiedere lavoro.

Se tutto va bene oggi andr a raccogliere pietre. Fatica tanta, soldi pochi, a volte nulla.

Poi arriva la rivoluzione di marzo e con essa la vita per gli africani di pelle nera diventa ancora pi difficile: perch Gheddafi arruola soldati mercenari proprio di pelle nera e, agli occhi dei ribelli, chi ha queste caratteristiche diventa un potenziale nemico. Si rischia la vita. E allora la vita meglio affidarla al mare, alla roulette russa dei barconi. La sua famiglia non sa ancora che lui ce l'ha fatta. Che uscito dalla Libia. Che qui. Ma immagina quale sia il suo sogno, almeno per ora.

Anche per questo basta una parola. "Rester. Rester ici".

 

Si avvicina l'ora del pranzo. La stanza si svuotata. E' rimasto solo lui. La sua mano scura scorre sulla lista dei venti ospiti per indicarmi il nome. Ora si ferma. Eccolo qua. Si chiama Farouk.

E' il nome giusto per un principe. Perch l'immigrato che ora mi si siede davanti questo .

Un principe non di rango, un principe per lo stile, perch riassume in s il massimo dell'eleganza: che la semplicit . Farouk sembra essere pi degli altri in una storia che non gli si addice.

Ma come ogni principe ritaglia intorno a s un'atmosfera che, nell'essere uguale, lo rende diverso, speciale. E' un'insegnante di lingue. Si trova qui per aver voluto sperimentare di persona le tracce dell'idioma pi bello: quello della libert . Libert stava annusando il suo Paese, la Guinea, dopo la fine del regime di Lansana Cont nel 2008.

All'epoca il governo militare provvisorio promette libere elezioni, salvo poi dimenticarsi di organizzarle. I partiti d'opposizione democratici fanno cos la loro mossa verso la democrazia convocando una manifestazione popolare nello stadio di Conakry. Quel giorno, il 28 settembre 2009, c' anche Farouk. C' anche lui nella folla compressa dai militari, i suoi occhi vedono la straziante scena della repressione: alla fine i morti saranno 150. Lui resta incolume, ma quel giorno segna ugualmente il suo destino: in troppi, nel suo quartiere, sanno che tra i promotori della manifestazione. Andare via necessario. Via dalla Guinea verso il Mali, poi in Algeria, quindi in Libia. A casa aveva un posto di lavoro sicuro. Qui lo aspettano mesi di precariet . E dopo la precariet del lavoro, quella della vita, a causa della guerra. "Non avevo altra scelta. Mi sono affidato a Dio e ho attraversato il mare. Cos sono arrivato qui".

Farouk ha due bambini piccoli. Insieme alla moglie lo aspettano a casa. Ma per ora non potranno ricongiungersi. "Per ora vorrei fermarmi un po'. Quel che cerco la pace".

Ecco. Pace. Ha ragione Farouk. E' questa la parola giusta per terminare questa storia, abbracciandole tutte.