22 gennaio 2019
21:48

I ricordi nell'abbraccio degli studenti ... e il male dentro di noi

CRACOVIA - Il peso più grave della memoria arriva alla fine, al termine della rievocazione teatrale sulle notti del 1943 di Enrico Fink, un nonno arrivato a Ferrara all'inizio del Novecento dalla Russia per fuggire ad un pogrom, arrivato anni dopo deportato e morto ad Auschwitz. La parte più difficile della memoria quella che ti costringe a fare i conti con te stesso, girare la cinepresa ed accorgerti i crimini furono anche degli italiani e dei fascisti. Di più: che i mostri non esistono e chi li commise fu spesso uno come tanti. Uno di noi.   

Accade alla fine, dopo il racconto dei sopravvissuti e testimoni,  in un cinema stipato di oltre settecento persone, nel centro di Cracovia. Dei tre giorni in Polonia a visitare i campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau oltre cinquecentocinquanta ragazzi e sessanta insegnanti, un viaggio che dal 2002 la Regione Toscana ha già organizzato undici volte quello al cinema Kijow è sicuramente uno dei momenti più intensi. Uno dei primi momenti tutti insieme.

Il ricordo è generoso, come sempre. Le parole arrivano ora come un pugno ed ora come lame di rasoio. Non ne esci con una risposta, per quelle servirà tempo, ma nella testa le domande fioccano come un turbine.

La sala è strapiena, ma non vola una mosca: per un'ora e mezzo, quando le sorelle Bucci e poi la figlia di Sergio Rusich parlano e raccontano. E poi per un'altra ora e mezzo, quando parole e musica, clip video e melodie ebraiche si rincorrono nella rievocazione teatrale di Enrico Fink, cinquanta anni, fiorentino, che dopo una laurea in fisica e una promettente carriera da ricercatore ha deciso di dedicarsi alla musica ed è diventato uno tra i principali interpreti della tradizione ebraica.

Ad introdurre l'incontro   Ugo Caffaz, ideatore e anima da sempre del treno, che parla dell'Europa: un'Europa dove la solidarietà, dice, si è fatta più fredda e che non va tanto più insieme. Un'Europa che rischia di tornare a frantumarsi, quando invece è nata anche per mantenere la pace: anche, e non per un caso, dopo l'orrore della deportazione. Un'Europa, basta sfogliare le cronache dei quotidiani,  dove i rigurgiti di razzismo e antisemitismo, fondati su pregiudizi e false notizie, tornano ad agitarsi.

Antonio Mazzeo, in rappresentanza del Consiglio regionale, volge lo sguardo a quando gli studenti torneranno a casa: "un viaggio dice - che non sarà servito se faremo finta di niente di fronte ai genocidi che ancora ci sono, di fronte ai barconi dei migranti, di fronte a quel bambino caduto in mare  e ritrovato sul fondo con la pagella cucita nella giacca, perché sperava che quei voti sarebbero serviti per costruirsi un futuro migliore".

Sara Funaro, la famiglia di origini ebraiche, assessore comunale a Firenze e rappresentante di Anci, l'associazione dei comuni, confessa che di non essere mai venuta a visitare i campi di Birkenau ed Auschwitz. E sapeva che sarebbe stato doloroso.  Alessandro Gazzetti, sedici anni, presidente del Parlamento toscano degli studenti, evoca le urla del dolore che arriva da sottoterra, dove i nazisti avevano scavato a Birkenau le camere a gas, ed invita ad aggiungere vagoni al treno della memoria usando i social e con l'hashtag #vivilamemoria, per raccontare a chi rimasto in Toscana e a scuola. "Fatelo dice organizzando anche incontri ed assemblee a scuola".

Poi salgono sul palco Andra e Tatiana Bucci: le bambine di 79 e 81 anni sopravvissute a Birkenau ne avevano quattro e sei quando il mare della storia piombato nelle loro vite e  attraverso le domande dello storico Giovanni Gozzini, anche lui instancabile partecipante al treno della memoria, inizia il racconto.  

Tatiana, la più grande,  ricorda la mamma, originaria di un paesino dell'Ucraina. Aveva pochi anni, era il 1910, quando fu costretta a fuggire per un progrom. Si fermò a Fiume, perchè la nonna pensava che fuggire da una città di mare, se di nuovo necessario, sarebbe stato più facile. Lì incontrò il babbo, che non era ebreo e faceva il marittimo, e si sposarono. Tatiana non ha mai potuto iniziare la prima elementare, per colpa delle leggi razziali. Lo zio, padre di Sergio, era arruolato in marina. Disse no dopo il 1943 alla Repubblica di Salò e fu imprigionato, come molti altri internati, dai tedeschi. Ricordano le sorelle la notte in cui tedeschi (ma anche fascisti italiani) piombarono a casa loro e le portarono via. La voce ogni tanto trema e si incrina, gli applausi le sostengono.  Rievocano il viaggio, la selezione, l'arrivo nella neve e con meno di dieci gradi sotto zero alla Judenrampe, perché allora il binario che entrava a Birkenau attraverso la celebre porta della morte non era ancora stato completato. Nonna e zia Sonia vengono subito spinte a destra e fatte salire su un camion, portate nelle camere a gas. L'erba nel campo non cresceva neppure in estate: solo fango. Vedevano le ciminiere del forno crematorio che sputava fumo e fiamme sempre, giorno e notte. Un odore continuo di bruciato. Ricordano le piramidi di cadaveri nudi, bianchi per la calce, portati con grandi carriole di legno grandi. "Ci giravamo intorno e non ci impressionavamo". Riaprono la ferita della perdita del cuginetto Sergio, selezionato come cavia e con l'inganno, assieme ad altri diciannove bambini per gli esperimenti di un collega di Mendele ad Amburgo.

Silva Rusich racconta un'altra storia, quella del padre deportato e sopravvissuto alla deportazione a Flossemburg, istriano irrinunciabilmente italiano e antifascista, un partigiano durante la guerra ma anche nella vita, nel senso che era uno che prendeva parte e non si nascondeva. Il suo numero era il 40301. Legge una pagina del suo diario, scritto nel giorno della liberazione. Quando tornò a Pola, la sua città, non era più italiana e se ne venne a Firenze, dove per tanti anni ha fatto il maestro di scuola elementare all'Isolotto.

Poi scorrono sul grande schermo i video, con altre testimonianze, Rivive così la storia di Shlomo Venezia, sopravvissuto dopo esser stato parte del Sonderdkommando, ovvero i prigionieri impiegati nella gestione delle camere a gas e dei forni crematori di Auschwitz e Birkenau. Venezia, ebreo, scomparso nel 2012, è l'unico italiano testimone di questa squadra speciale'.

C'è Marcello Martini, deportato a Mauthausen a soli quattordici anni e sopravvissuto a quasi un anno di duro lavoro, il più giovane deportato politico italiano,  ma quest'anno impossibilitato a venire  per un impedimento fisico. E' capace di sorridere ancora, con ironia, di fronte agli orrori  e alle nefandezze più tremende patite. Nella borsa consegnata alla partenza ai ragazzi c'è il suo libro, con una dedica speciale per chi salito sul treno del 2019.  "Vi potranno levare tutto, ma non quello che avete imparato e sapete fare" dice. Applausi.

Si materializza sullo schermo anche Antonio Ceseri, fiorentino, che assieme ad altri oltre 600 mila da militare dopo l'8 settembre 1943 disse no alla Repubblica di Salò. Sopravvisse ad una lunga marcia della morte e alla strage che ne seguì, internato nel campo di Treuenbrietzen in Germania. E' poi la volta dei rom, con la storia di Hugo Hollenreiner, sinti tedesco deportato ad Auschwitz-Birkenau. Ultimo Heinz F., triangolo rosa, internato a Dachau e Buchenwakd solo per essere sospettato di essere omosessuale. Furono forse 15-20 mila gli omosessuali deportati, ma non si conosce il loro numero esatto, anche perché dopo la liberazione in molti tacquero il motivo del proprio internamento. Heinz scontò otto anni di reclusione (fin già da prima del 1943) e fu vittima poi della prigionia del pregiudizio, anche dopo la guerra, intimorito come molti altri tanto da nascondere  il cognome dietro un'iniziale puntata, con l'omosessualità che continuata ad essere considerata un reato in Germania fino al 1969 e in modo più attenuato fino al 1994. Loro non ci sono più ma la loro memoria continua a sopravvivere.