18 gennaio 2019
14:12

I testimoni del 2019

I testimoni del 2019

FIRENZE - Il treno della memoria viaggio e testimonianza e la memoria ha bisogno di eredi per essere tramandata. Dalle baracche non emana più oggi il tanfo e l'odore di morte di quei giorni lontani più di settanta anni. Non ci sono i latrati dei cani, il tonfo sordo delle percosse gratuite, le raffiche ogni tanto di qualche mitra e le urla, il freddo allora ancora più intenso o le cataste di morti con il dondolio dei cadaveri. Ma vedere aiuta: aiuta a porsi domande, anche se non sempre arrivano le risposte. Vedere quello che umanamente sembra impossibile che sia accaduto aiuta. E ascoltare da chi nei campi c'è stato e che lo sterminio e le crudeltà del regime nazista l'ha patito sulla propria pelle aiuta ancora di più.

Questo il filo rosso di diciotto anni, dal 2002. Nel 2005 gli studenti toscani che salirono sul Treno della memoria assistettero al racconto di Shlomo Venezia, sopravvissuto dopo esser stato parte del Sonderdkommando, l'unità speciale impiegata nella gestione della camera a gas e dei forni crematori. Lo riascolteranno, in video, anche stavolta. I componenti del Sonderkommando erano prigionieri a cui ad Auschwitz e Birkenau veniva chiesto di rimuovere i cadaveri, aggrovigliati, di altri prigionieri. E periodicamente anche loro venivano eliminati, per rimuovere testimoni scomodi.

Ascoltare Shlomo Venezia, unico italiano sopravvissuto al Sonderkommand (solo perché il campo fu liberato prima che arrivasse il suo turno), è un'esperienza che ti cambia, come prestare le orecchie ai ricordi delle sorelle Bucci, sorelline dai capelli bianchi sopravvissute anche loro ad Auschwitz. I ragazzi in tutti questi anni si sono trovati davanti anche chi è stato deportato non perché ebreo ma rom o omosessuale, perché aveva scelto di lottare da partigiano contro nazismo e fascismo (come Marcello Martini di Montemurlo, che non potrà però essere a Cracovia) oppure perché da soldato, dopo l'8 settembre, rifiutò di giurare e schierarsi con i repubblichini di Sal. Il fiorentino Antonio Ceseri fu uno di questi: uno dei 600 mila militari italiani internati all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre 1943, rappresentante di quella che Alessandro Natta ha definito "l'altra Resistenza", sopravvissuto alla strage dei soldati italiani a Treuenbrietzen in Germania. E' di recente scomparso, ma i ragazzi potranno ascoltare e vedere una delle sue ultime interviste.

Sul treno e in Polonia con i ragazzi ci saranno le sorelle Andra e Tatiana Bucci, le uniche bambine italiane sopravvissute dopo esser state deportate ad Auschwitz ed essere state scelte dal dottor Mengele come cavie per i propri esperimenti. Per loro la nona volta con i toscani (ed altre volte con altre regioni) e sono un po' diventate le testimonial dell'iniziativa: nove edizioni su dieci. Dopo la guerra, sono tornate la prima volta ad Auschwitz e Birkenau negli anni Novanta. Ma mai avevano avuto il coraggio di entrare nel Museo di Auschwitz: quello con i capelli, le scarpe, i vestiti, le bambole e tanti altri oggetti personali strappati a chi era destinato alle camere a gas. Era troppo doloroso entrarvi, hanno confessato. L'hanno fatto otto anni fa, nel 2011, assieme proprio ai ragazzi toscani.

Con le sorelle Bucci sarà a Cracovia anche Vera Vigevani Jarach, che non ha patito la deportazione direttamente. Il nonno è morto ad Auschwtiz, lei e la famiglia sono riusciti a fuggire prima da Milano verso l'Argentina. Ha sofferto per la discriminazione delle leggi razziali del 1938 e poi, molti anni più tardi, ha visto scomparire nel nulla la figlia, desaparecida durante la dittatura di Videla, e dunque testimone di un'altra grande tragedia del Novecento.

Silva Rusich racconterà infine la storia del babbo, Sergio - partigiano, deportato politico al lager di Flossenburg ed esule istriano - che a Firenze dopo il 1947 ha passato sessanta dei suoi 86 anni, maestro per almeno quattro generazioni alla scuola elementare della Montagnola all'Isolotto.


LE BIOGRAFIE

Andra e Tatiana Bucci, due bambine ebree ad Auschwitz
Le due sorelle sono figlie di Giovanni Bucci, fiumano cattolico, e di Mira, madre ebrea la cui famiglia, originaria della Bielorussia, si era trasferita a Fiume per mettersi in salvo dai pogrom zaristi dei primi del Novecento. Nel marzo del 1944, Andra e Tatiana, che allora avevano 4 e 6 anni, furono deportate ad Auschwitz insieme al cugino Sergio De Simone di 6 anni, dopo due giorni passati alla Risiera di San Saba, lager triestino. Furono scambiate per gemelle e questa fu la loro salvezza in un campo, come quello di Auschwitz, dove su oltre 200 mila bambini deportati poco meno di cinquanta sono sopravvissuti. Il fatto di essere gemelle le fece infatti diventare interessanti per gli studi del dottor Mengele. Vengono liberate il 27 gennaio 1945, il giorno della liberazione del campo di Auschwitz. Il cuginetto Sergio, invece, prelevato dal lager insieme ad altri bambini su autorizzazione di Himmler, viene usato come cavia in orribili esperimenti e poi assassinato nei sotterranei di una scuola di Amburgo. Dopo la liberazione, Andrea e Tatiana, che assai presto avevano perso contatti con la mamma nel periodo della permanenza al campo, furono condotte in un orfanotrofio vicino a Praga, dove restarono fino al marzo 1946. Di seguito, fino a dicembre, furono ospiti di un orfanotrofio inglese, il Weir Courteny Hostel a Lingfield nel Surrey. Solo grazie ai numeri tatuati, tenuti a mente con amorevole disperazione dalla madre, i genitori e la famiglia riuscirono dopo oltre due anni a rintracciarle, aiutate dal Comitato per i rifugiati ebrei di Londra e dalla Croce Rossa Internazionale. Tatiana e Andra hanno partecipato ai viaggi del Treno della Memoria nel 2004 a Majdanek-Varsavia e nel 2005, 2007, 2009, 2011, 2013 e 2015 ad Auschwitz, trasmettendo ai giovani il ricordo del loro sguardo di bambine nell'inferno di un lager.

Vera Vigevani Jarach
Vera ha due storie, tremende: il nonno deportato che è morto ad Auschwitz, la figlia Franca desaparecida nel 1976 in Argentina e vittima, a diciotto anni, dei voli della morte della dittatura militare. Due storie tremende in una sola vita, che testimoniano come il male sia davvero banale, intimamente connesso al genere umano e possa ripetersi più volte purtroppo nelle sue aberrazioni, magari in forme diverse. La storia di Vera è stata raccontata nel 2014 in un docuweb in sette puntate realizzato da Marco Bechis e il Corriere.it. Vera Vigevani è nata a Milano nel 1928. Undici anni più tardi, dopo aver patito gli effetti delle prime leggi razziali, la sua famiglia scelse di emigrare in Argentina. Era il 1939. In Italia rimase solo il nonno, sessantonovenne antiquario, che provò poi a fuggire in Svizzera alla fine del 1943 ma fu tradito. In Argentina Vera si è sposata ed è stata, fino alla pensione, giornalista all'Ansa di Buenos Aires. Sua figlia Franca scomparve a diciotto anni il 26 giugno 1976 e di lei non si seppe più nulla fino a poco tempo fa, quando una donna che era sopravvissuta al campo di concentramento dell'Esma, la scuola militare trasformata in un lager, le ha raccontato tutto. Da allora Vera Vigevani appartiene al movimento delle Madres de Plaza de Mayo ed diventata una "militante della memoria".

Sergio Rusich
Sergio Rusich ha passato sessanta dei suoi 86 anni a Firenze. C'è arrivato nel 1947, come migliaia di altri esuli istriani, e lì c'è morto nel 2006. All'Isolotto almeno quattro generazioni ricordano ancora bene la missione di maestro elementare alla Montagnola di quell'istriano irrinunciabilmente italiano e antifascista per istinto, partigiano fra i prigionieri politici del campo di Flossenburg. Il suo numero era il 40301. Fu testimone dei massacri fascisti patiti dagli yugoslavi e poi delle foibe.
Giovane canottiere nella Pola, si diceva che era capace di spezzare i remi tant' era forte la sua vogata. Fu velista, sub, nuotatore. Dopo l' 8 settembre voltando le spalle alla Repubblica di Sal se ne andò, maestrino e allievo ufficiale prima in bosco coi partigiani istriani. Fu catturato dai nazisti e a dicembre del 1944, internato a Flossemburg fino all'aprile dell'anno dopo. Era il campo dove è morto Eugenio Pertini, fratello del presidente della Repubblica Sandro che nel 1984 gli conferì il diploma d'onore di combattente per la libertà.

Marcello Martini, staffetta partigiana
E' figlio del maggiore Mario Martini, comandante militare del Comitato di Liberazione Nazionale della zona di Prato. Nel 1944 aveva solo quattordici anni ma compiva importanti e pericolose azioni come staffetta partigiana: apparteneva al gruppo Radio Cora con mansioni di informatore. Tutta la sua famiglia era attiva nella Resistenza e il 9 giugno, dopo che il gruppo di Radio Cora fu scoperto e arrestato a Firenze, anche la casa di Montemurlo della famiglia Martini fu circondata dalle SS e tutti i suoi componenti (eccetto il figlio Piero, non presente in quel momento) babbo, mamma, i fratelli Anna e Marcello, catturati. Solo il maggiore Martini riuscì a fuggire. La signora con i due figli fu condotta a Firenze, a Villa Triste, la sede dei terribili interrogatori e delle torture perpetrate dalla famigerata "banda" del fascista repubblichino Mario Carità. Madre e figlia furono rinchiuse nel carcere femminile di Santa Verdiana e successivamente liberate con un audace colpo di mano dei partigiani. Marcello invece fu portato alla prigione delle Murate, poi, nonostante la giovanissima età, trasferito al campo di transito di Fossoli vicino a Carpi e quindi, con il trasporto del 21 giugno 1944 a Mauthausen. Fu destinato al sottocampo di Wiener Neustadt e assegnato ai Cantieri della Rax Werke per lavorare come "chiodatore" nella costruzione dei battelli fluviali. Dopo essersi gravemente ferito al piede e aver contratto seri dolori reumatici fu trasferito nel campo di Mödling, vicino a Vienna. I circa 1200 deportati di quel campo, tra cui anche Marcello, il 1 aprile 1945 furono incolonnati per il ritorno al "campo madre" di Mathausen. Dovettero subire lo strazio di una marcia estenuante che durò 6 giorni e solo due terzi arrivarono vivi a Mauthausen. Molti altri di quel gruppo morirono anche dopo per fame e per stenti oppure furono uccisi nelle camere a gas perché non più in grado di lavorare. Marcello fortunatamente riuscì a sopravvivere e dopo la liberazione rientrò in Italia dovendo affrontare, a soli quindici anni, lunghe cure di riabilitazione. Si è poi trasferito in Piemonte dove ha lavorato come dirigente di azienda e dove risiede tuttora.

Antonio Ceseri, soldato internato
E' nato a Firenze l'8 Gennaio 1924 da una famiglia con tradizioni antifasciste. Nel 1942 rispose alla chiamata alle armi nella Marina Militare. Fu di stanza prima a Pola e poi all'Arsenale di Venezia, dove fu sorpreso dalla notizia dell'armistizio l'8 settembre 1943. Il 9 settembre fu arrestato dai soldati tedeschi che occuparono l'Arsenale e incarcerato nella caserma di Mestre. Due giorni dopo, l'11 settembre, fu portato alla stazione della città e, stipato con i suoi compagni di reggimento in carri bestiame, trasportato al campo di lavoro di Hannover, dove arrivò dopo cinque giorni di viaggio. Durante il primo periodo di detenzione, Ceseri e gli altri internati militari non subirono particolari maltrattamenti e poterono contare anche su una regolare distribuzione del rancio. La situazione dei prigionieri mutò rapidamente verso la fine del settembre 1943, dopo che fu proposto loro di lasciare il campo in cambio dell'arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana o nelle file dell'esercito nazista. Ceseri, così come altre migliaia di uomini nelle sue stesse condizioni, non accettò l'offerta e fu trasportato in un campo nei pressi di Treuenbrietzen, a circa settanta chilometri da Berlino. Il campo era circondato da filo spinato e i prigionieri erano sorvegliati costantemente: in un primo momento da militari della Wehrmacht, successivamente dalle SS. In questo campo la vita dei reclusi peggiorò notevolmente, sia a causa del poco cibo distribuito che del duro lavoro da svolgere in massacranti turni di dodici ore consecutive (una settimana di giorno, una di notte). Gli internati, inoltre, dovettero subire continue angherie perpetrate dai capisquadra civili addetti al controllo del loro lavoro, che divennero meno aggressivi soltanto con l'avvicinarsi della fine della guerra. La vita dei prigionieri non subì particolari cambiamenti fino al 21 Aprile 1945, giorno in cui il campo venne liberato dalle truppe sovietiche che avanzavano da est. In poco tempo, però, i nazisti riuscirono a riprendere il controllo della zona e tornarono immediatamente al campo, costringendo i detenuti ad abbandonarlo e a incolonnarsi verso una cava di sabbia poco distante. Quando la colonna arrivò all'altezza di un ponte ferroviario i nazisti salirono sui lati della strada, che era costeggiata da un terrapieno, e cominciarono a sparare dall'alto verso il basso, allo scopo di uccidere tutti i prigionieri. Quel giorno morirono 127 internati militari italiani. Riuscirono a scampare all'eccidio, riparandosi sotto i corpi trucidati dei compagni e completamente ricoperti di terra, soltanto quattro uomini. Tra di loro c'era anche Antonio Ceseri. Nei mesi successivi Ceseri e gli altri pochi superstiti del massacro di Treuenbrietzen procedettero all'identificazione dei caduti, svolgendo un formidabile lavoro per ricostruire una delle pagine più tristi della storia dei militari italiani internati nei lager tedeschi.