21 gennaio 2019
20:03

Il gelo di Birkenau riscaldato dalla preghiera e dal ricordo

BIRKENAU - Massimo D'Angeli 1 anno  Lello Cal 6 mesi ... Sara Birkenwald 21 anni Fiorella Articoli 7 anni ...  Elisabetta Berti 19 anni ...Vittorio Cal 20 anni Alle due del pomeriggio la voce dei ragazzi toscani riempie il silenzio del campo di sterminio di Birkenau, il più grande attorno ad Auschwitz. Quel nome l'hanno custodito fin dalla partenza,  hanno provato a dargli un volto e una storia ed diventato un fardello assai più pesante ed emotivamente più coinvolgente di un arido numero. Sono tanti i nomi  che si accavallano nell'aria gelida che si fa latte ed avvolge tutto davanti al memoriale, quando inizia anche a nevischiare: un nome per ciascun ragazzo e ragazza, l'età   e pochissimi i sopravvissuti. Nomi di giovani e adulti, spesso bambini e neonati. Cognomi che si ripetono con insistenza e che danno bene l'idea di intere famiglie sterminate.

La cerimonia al monumento internazionale del campo di Birkenau, dove un tempo c'erano i quattro forni crematori e le camere a gas capaci di inghiottire duemila persone per volta, fatti saltare in aria dai tedeschi in ritirata, il culmine della visita iniziata tre ore innanzi, nel primo dei tre giorni in Polonia. Tre ore nel freddo e forse di più, con qualche studente che, forse anche per l'emozione, ha accusato qualche piccolo malore, prontamente soccorso dai medici insieme al gruppo toscano. Ci arrivano in corteo, due striscioni a ricordare altrettanti frasi di Primo Levi, lo scrittore e reduce di cui si ricordano i cento anni dalla nascita, e poi il lungo elenco di ebrei, rom, sinti e 'diversi' rinchiusi nei lager nazisti (e non solo a Birkenau), proseguita con la commemorazione ufficiale della vicepresidente della Toscana Monica Barni e terminata con tre preghiere: prima quella cattolica, poi  quella in romanesh (la lingua dei rom), quindi quella ebraica, un canto intonato da Enrico Fink, che diventa un brivido lungo la schiena ma riscalda anche l'anima. 

I ragazzi ascoltano distribuiti davanti al monumento.  Si guardano, a volte abbassano lo sguardo oppure cercano quello di Andra e Tatiana, le bambine di 79 e 81 anni sopravvissute a quel campo e a quell'orrore, di fianco ai gonfaloni della Regione Toscana e del Comune di Firenze.

La giornata era iniziata molto prima, alle 10 di mattina, quando il treno proveniente da Firenze arrivato alla stazione di Oswiencim, con due ore di ritardo al termine di un viaggio iniziato alle una delle domenica. La neve nei campi (ma non nei sentieri) e tanto freddo, ma mai come quello che negli inverni del 43 e 44 fece registrare anche trenta gradi sottozero. I ragazzi camminano tra i fili spinati fiancheggiati da garitte: di fronte alcuni vagoni bestiame piombati ancora sui binari, gli stessi che portarono donne, uomini e bambini verso l'anticamera dell'inferno, a destra la morte sicura e a sinistra (forse) la speranza di sopravvivere. Il freddo punge il viso e attanaglia mani e piedi di chi oggi indossa scarponcini e giacche a vento: figurarsi cosa pativano prigionieri e reclusi vestiti solo di un pigiamino a strisce e zoccoli di legno, costretti a spogliarsi fuori d'inverno quando c'erano le disinfestazioni, spesso senza neppure una stufa accesa nelle baracche, i tetti con le assi sconnesse e le finestre aperte.

Birkenau era il campo più grande degli oltre quaranta attorno ad Auschwitz: 175 ettari, che sono più di trecento campi da calcio, un settore per gli uomini, un altro per le donne e un terzo per i bambini ma anche un paio di villaggi 'propagandistici', realizzati ad arte dai nazisti per cercare di nascondere la realtà nel caso di ispezioni della Croce Rossa, quando ancora gliene importava qualcosa. Una distesa senza fine, a chiazze bianche, rosse e quasi nere. Fu il secondo ad essere costruito, nel 1941, destinato ad ospitare fino a 200 mila persone alla volta: un anno dopo Auschwitz I e un anno prima di Monowitz, il campo di Primo Levi, utilizzando terreni e case espropriate ai polacchi che nel dopoguerra sono poi tornati, non senza per qualche polemica per le case costruite a ridosso del lager. L dove arriva si fermava all'inizio il treno, prima i binari fossero proseguiti per altri ottocento metri fin dentro il campo.

A Birkenau  ed Auschwitz arrivò il 23 ottobre 1943 il primo convoglio partito dall'Italia, da Roma. Nei mesi scorsi morto l'ultimo dei diciassette sopravvissuti, l'unica donna tra diciassette.

Dove oggi ci sono le baracche c'era prima una palude e il terreno era spesso fangoso, racconta la guida - Durante la bonifica c'è chi vi è morto annegato.  Il giorno al campo era un inferno: il lavoro utilizzato come strumento di sterminio per una morte lenta. Ma anche la notte era una tortura. Si iniziò a costruire le baracche in legno quando finirono i mattoni. Erano fatte di assi di legno leggero. D'inverno faceva freddo e  d'estate mancava il respiro. Sui letti dormivano in più di otto, la paglia sempre sporca di escrementi, i pidocchi ovunque e i topi, feroci, grandi come gatti. Ma faceva freddo anche nelle case di mattoni. Una era chiamata la baracca della morte e le donne malate destinate alla camera a gas aspettavano lì il proprio turno, spesso senza mangiare n bere.

Ascoltare queste ed altre storie ti scuote l'anima. Ma anche ripeterle ogni giorno deve essere duro. "Come ci si può abituare a questo lavoro?" qualcuno chiede alla guida. La bionda Ursula risponde che la deportazione riguarda anche i polacchi. La sorella di suo nonno fu deportata in quel campo, poi trasferita altrove. Ne è sopravvissuta ma non ha mai voluto raccontare niente  di quella terribile esperienza patita. "Fare la guida dice vuol dire essere costantemente immersi nel passato. Non indolore. Di sicuro influenza la tua vita, ma qualcosa che alla fine ti arricchisce anche". Un atto di generosità, perchè la memoria non sia solo commemorazione, facendosene testimone.