22 gennaio 2019
12:00

Il missionario

E pensare che Rudolph Hoss in fondo sognava solo di lavorare in una fattoria per coltivare la terra e allevare i cavalli. Oppure il missionario. Erano i suoi sogni di bambini. Invece diventerà il comandante che in quattro anni ha plasmato il campo di Auschwitz e lo ha fatto diventare la macchina perfetta dell'orrore che conosciamo.
A sedici anni Rudolph era stato volontario della Croce Rossa. La guerra, la prima guerra mondiale, lo cambia. Si arruolò nelle SS e non fece una piega davanti al milione di morti di cui fu responsabile. Con la convinzione del lavoro fatto e fatto bene.

Anzi viveva sereno nella sua casa lussuosa con vista sui forni crematori, ai bordi del campo. La sera tornava a casa e, come se niente fosse, leggeva fiabe ai bambini, che con la moglie avevano trasformato quell'abitazione con orto e giardino in un piccolo rifugio per animali: la fattoria che non avevano mai avuto.

Contrasti dell'anima, capaci di convivere. Come Elisabeth Will Hans, moglie del comandante del campo di concentramento polacco di Janosk, che era solita sparare ai detenuti ebrei dal balcone di casa con accanto la figlia di sei anni.

L'errore più grande commesso nella vita Rudolph Hesse lo capisce (e lo confessa) la notte prima della condanna a morte, quando scrisse una lettera al figlio, una sorta di testamento morale: "l'errore dice - stato quello di credere a tutto quello che mi veniva ordinato dall'alto". Il non riconoscersi, sopratutto, negli occhi degli altri.