21 gennaio 2015
18:32

L'abbraccio con i testimoni diretti dell'Olocausto

CRACOVIA (PL) L'emozione della visita di Auschwitz con tutto il suo gelido orrore ancora viva nei cuori e negli stomaci dei settecentocinquanta del Treno della memoria 2015 quando, nel pomeriggio, inizia l'ultimo incontro con i testimoni diretti dell'Olocausto, quelli che dalla sua voragine sono riemersi.

Ieri era stata Vera Vigevani Jarach a raccontare la propria storia alle ragazze e ai ragazzi. A rispondere anche alle loro domande, ad offrire un abbraccio fisico e morale. Oggi stata la volta delle sorelle Tatiana e Andra Bucci, da anni instacabili testimoni del treno toscano (e di tanti altri treni), le due sorelline con i capelli bianchi scampate a Birkenau e al dottor Mengele, deportate a quattro e sei anni. I ragazzi le ascoltano. Poi si avvicinano, le ricercano il giorno dopo sul treno, le stringono e spesso gli regalano anche qualcosa di loro: una collanina, un braccialetto, un fazzoletto.

Con le sorelle Bucci, in una sala di cinema dove per ore non è volata una mosca che il miracolo che si ripete ogni anno,  c'era anche Vera Michelin Salomon, antifascista spedita a ventuno anni al carcere duro in Germania dopo l'arresto a Roma nel 1944 (leggi la storia e guarda il video), e Marcello Martini, staffetta partigiana quattordicenne di Montemurlo a Prato, da anni trapiantato in provincia di Torino.  

Storie diverse, l'origine ebraica e l'adesione alla Resistenza (armata o non armata). Storie comuni, come la persecuzione nazista e la deportazione. Tutti e tre erano anche giovani e giovanissimi, quando non addirittura bambini: ma l'età non evitò loro di patire le sofferenze dei campi di sterminio. Storie del passato che squarciano veli del presente, come quando Vera Salomon dice: "Quando si considera qualcuno 'diverso' allarmiamoci, perchè la diversità non esiste. E facile considerarsi assolti dalle atrocità, ma a volte basta dire un si o un no per opporsi".

Testimonianze dal vivo e testimonianze registrate, perchè ad essere deportati non furono solo li ebrei o gli antifascisti ma anche gli omosessuali, i rom, i 'diversi' o presunti tali.  O i soldati italiani che dopo l'8 settembre scelsero di non aderire alla Repubblica di Sal e indossare la divisa tedesca: come il fiorentino Antonio Ceseri, uno dei 600 mila Imi, gli internati miliari italiani, che dissero "no" e si ritrovarono al lavoro forzato in Germania. Lui  (leggi la storia e l'intervista) rimasto quest'anno a casa, ma ha affidato ai ragazzi un video messaggio. Erano veri e propri schiavi di Hitler, offesi e umiliati. E talvolta furono barbaramente trucidati: come i compagni di Antonio, unico superstite assieme a due compagni di 130 commilitoni del campo di Treuenbrietzen, sessantasei chilometri a nord di Berlino.  

Alla fine finisce con un grande abbraccio tra generazioni separate da tre quarti di secolo, tra chi ha saputo dire di e chi imparerà a farlo. O già, dopo questo viaggio, lo ha imparato.