21 gennaio 2015
9:01

La sconvolgente normalità di Auschwitz

Il campo di Birkenau, nella sua crudezza, è terrificante. Ma Auschwitz, nella sua apparente atmosfera di normalità, appare forse ancor più sconvolgente. Sembra una caserma militare. E infatti tale era, prima dell'arrivo dei nazisti, con i suoi austeri ma solidi e decorosi edifici in mattoni rossi anziché le fragili e incerte baracche in legno di Birkenau. Con i suoi viali e vialetti ordinati. Una prigione certo, ma apparentemente 'normale'. E invece volgi lo sguardo dal lato opposto del vialetto interno e vedi una forca dove furono impiccati, per rappresaglia, dodici prigionieri polacchi.

Birkenau è immenso, ma vuoto. O per lo meno molto più vuoto. Occorre far funzionare l'immaginazione. Ad Auschwitz al contrario l'orrore si materializza nei volti delle foto e negli oggetti del museo. Passi da un edificio all'altro – esternamente identici a come erano settanta anni fa, all'interno adattati per ospitare la mostra – e ti imbatti in urna di ceneri umane raccolte a Birkenau e che i tedeschi usavano per concimare i campi o, d'inverno, per cospargere le strade ghiacciate del campo. Vedi i fusti di gas, il famigerato Zyclon B, che proprio ad Auschwitz fu per la prima volta sperimentato nel 1941 su 650 prigionieri russi e 250 infermi polacchi. Bastavano tre o quattro scatole, da 5 ai 7 chili, per uccidere 1500 persone. Le truppe dell'Armata Rossa che il 27 gennaio 1945 entrarono in un campo già pressoché deserto ne trovarono 20 tonnellate.

Nei 'blocks', a volte illuminati da un tiepido sole ed altre volte velati dalle neve che cade dal cielo,  vedi anche i capelli tagliati ai deportati quando arrivavano e ai morti delle camera a gas. I tedeschi li raccoglievano per venderli o comunque per utilizzarli per l'economia di guerra di un Paese progressivamente sempre più sotto assedio.. Li spedivano periodicamente in Germania e diventavano materassi e tessuti oppure venivano utilizzati per costruire bombe a scoppio ritardato. Quando il campo fu liberato di capelli ce n'erano, ammassati e già raccolti nei sacchi, ancora 7 tonnellate. E i capelli di una persona  non pesano più di 40-50 grammi.

Vedi le bambole, i vestiti e i giocattoli di tanti bambini che non erano una vera minaccia per il Terzo reich ma che non diventarono mai grandi. Ci sono le scarpe: 80 mila paie ne sono state trovate. Ci sono gli oggetti di tutti i giorni – pentole, spazzolini da denti, pennelli da barba, pettini – perché gli ebrei e gli altri prigionieri del campo pensavano di essere deportati ma non di andare incontro alla morte.

E poi ti imbatti nel muro nero della fucilazione, negli ambulatori dove il dottor Mengele ed altri medici conducevano delittuosi esperimenti o nelle celle dove si veniva chiusi anche per punizione, in piedi e in quattro, per notti e notti, in una stanza di novanta per novanta centimetri, con l'impossibilità di dormire.

Ad Auschwitz (e in tanti altri lager) gli uomini, donne e bambini non erano più esseri umani ma semplicemente 'pezzi', 'stuck' come si diceva in tedesco. Nel campo si poteva sopravvivere poche settimane, a volte alcuni mesi al massimo. E tutto era stato studiato a tavolino. La dieta e le razioni ridotte, assieme al lavoro coatto, portavano allo sfinimento da tre a sei mesi. Il tatuaggio e un numero sostituivano il nome: impresso sull'avambraccio o sul petto, ai bambini sulle cosce o sulle natiche.  Tutto era stato pianificato per annientare il fisico ma anche la personalità e dignità umana.