Diritti
6 maggio 2011
13:30

Migranti, dal Mali in Libia poi a Settignano: quando la guerra ti rincorre

FIRENZE - E' arrivato il tempo di tirare il fiato e fare pace con la vita. Sembrano dirlo il silenzio e il sole discreto di questa mattina che si infila fra i cipressi e la boscaglia di Settignano mandando in pausa tutti i brutti pensieri. Anche i loro, forse.  Amadou, Moussa, Matenin, Gimbala sono seduti in fila sulla panchina davanti all'entrata di Villa Pieragnoli. La fatica negli occhi. Non parlano, sospesi nel torpore, come quello che segue un febbrone, che lascia un po' storditi ma utile per recuperare prima della ripresa. O magari prima di un nuovo inizio affidato alle preghiere.

 

 

Sono undici in tutto gli ultimi arrivati da due giorni alla grande casa nel bosco sotto Vincigliata, struttura della Caritas destinata all'accoglienza di profughi e rifugiati politici. Il pi vecchio ha ventisei anni. Il pi giovane non arriva a venti. Provenienza Libia. Ma Tripoli stato solo l'ultimo rifugio di un'esistenza in fuga. E' iniziata in Mali, per noi semplicemente il paese di Timbuct dal fascino esotico. Per loro, casa: qui molti hanno lasciato una moglie, qualcuno anche un figlio, e poi pi niente. Ma di raccontarlo non hanno molta voglia. E neppure ci riescono, intrappolati in una lingua che capisce a stento perfino la mediatrice culturale, Safira, marocchina che parla correntemente francese e arabo ma non il bambara. Per loro sanno solo quello, appena addomesticato da qualche parola francese e qualcun'altra parola araba africanizzata.

 

In tre alla fine si fanno coraggio. Escono dal gruppo e ci vengono incontro, spinti da un istinto di generosit pi che dalla reale intenzione di parlare di s . Erano tutti insieme sul vecchio peschereccio che li ha portati qua. Si sono imbarcati da estranei l'uno per l'altro. Hanno toccato la spiaggia di Lampedusa da fratelli. Perch in quei tre giorni di viaggio disperato loro che ce l'hanno fatta ne hanno visti morire tanti, stroncati dalle botte prese dai soldati prima della traversata, dalle ferite, dalla polmonite e buttati a mare.

Moussa, il pi giovane, esce dall'angolo in cui si infilato, ripercorre quei momenti. All'improvviso s'infiamma e negli occhi riprendono vigore le scintille dei suoi vent'anni. Allora non importa se mischia arabo e bambara. Il terrore non ha bisogno di traduzione.

 

"Quando siamo arrivati all'imbarco - racconta concitato - i soldati ci hanno puntato i fucili contro - mima il gesto con le braccia - e ci hanno spinto a forza a bordo del barcone. Siamo partiti senza neppure sapere dove andavamo". Gli altri due compagni lo guardano e confermano con la testa, con gli occhi, con il respiro.

Da Safira, che cerca di farsi spiegare cosa successo, si capisce che ora a Tripoli funziona cos : sono i militari di Gheddafi a dirigere le operazioni per l'imbarco di migliaia di persone ogni giorno. Sono loro a gestire le partenze. Per farlo meglio usano direttamente i porti militari e naturalmente la minaccia delle armi. Si fanno pagare, ti strappano i pochi bagagli, se ce li hai, e via, fuori dai piedi. Cos Moussa e gli altri non hanno potuto neppure scegliere come scappare e dove andare, catapultati come palle di cannone contro la buona o la cattiva sorte.

 

A volte dalla guerra non basta fuggire, se la guerra ti rincorre. E finora per tutti loro andata cos . Moussa, che in arabo significa "fanciullo", il fanciullo che era l'ha lasciato diversi anni fa tra il Sahara e la savana. Ha dovuto crescere in fretta in Mali, dove ha visto morire uno a uno tutti i membri della sua famiglia, uccisi in azioni di ritorsione nella guerriglia con i ribelli Touareg. L'ultima rappresaglia, dove anche lui rimasto ferito e gli ha portato via il padre, era scoppiata a causa di scontri per la localizzazione di una moschea.

 

Cos , rimasto solo, da solo ha deciso e da solo partito. In Libia ci arrivato con una delle carovane dei disperati, nella traversata dove bandita la parola piet . Attraverso il Tener , il deserto dei deserti, poi attraverso il Sahara, ha vinto la sua partita. E' arrivato l dove non tutti riescono, ed ha potuto vedere l'orizzonte di polvere rossa che dal Niger scende in Libia, fino all'unica strada asfaltata che finalmente porta a Tripoli.  Che una volta l , nel giro di due anni dovesse poi riprendere la via dei fuggitivi, non l'aveva messo in conto. Di studiare in Mali, un Paese dove meno di uno su due alfabetizzato, non ha avuto modo. Sa giusto leggere, scrivere e usare bene le mani. Le sue, robuste, in Libia gli hanno fruttato un lavoro da manovale. Tutto quello che aveva. E una fidanzata? Scuote la testa Moussa sciogliendo in un sorriso da adolescente la durezza precoce dei suoi tratti: "Non ho avuto il tempo" sussurra.

 

Matenin e Gimbala invece un amore ce l'hanno. Ma lo hanno lasciato in Mali, dove nessuno dei due pu pi tornare. Quello di Gimbala si chiama Bamaka. Lui ha fatto appena in tempo a sposarla e dopo tre mesi ha dovuto dirle addio. Figlio maggiore di un imam, Gimbala a 21 anni stato cacciato dal Mali a causa della guerriglia con i ribelli Touareg che nel suo paese avevano imposto un imam nemico di suo padre e della sua famiglia. Se torna lo uccidono, dice. Pur di vederlo salvo, sua moglie ha anteposto la vita di lui a tutto il resto e ha solo chiesto a dio di benedire il suo viaggio. "Cos nel 2006 sono arrivato in Libia - racconta - che consideravo il rifugio pi sicuro e comunque pi vicino. Magari anche quello in cui poter lavorare e guadagnare". Infatti qui ha trovato un posto come giardiniere che gli permetteva di mandare a casa un po' di soldi e sperare di mettere da parte qualcosa per farsi raggiungere da Bamaka. Non ce l'ha fatta, travolto da un'altra guerra, da altro odio e dalla stessa inesorabile necessit di scappare.

 

"Fai di tutto per resistere. Ma quando alla fine non hai pi niente da mangiare, non trovi pi neppure l'acqua da bere e vedi di continuo soldati che entrano nelle case sfondando le porte, massacrano di botte chi ci trovano e ogni giorno speri che non capiti a te, che fai? Scappi". E Matenin, 24 anni,  scappatodalla periferia diTripoli. Anche lui. Dopo esser fuggito, anche lui, da Kidal in Mali e aver lasciato l sua moglie e suo figlio di tre anni. Anche lui stato vittima degli scontri con i ribelli Touareg che lo hanno catturato una mattina mentre stava dando fuoco alle sterpaglie nel suo campo. Con l'accusa di voler appiccare un incendio, volevano scaraventarlo in galera. Ma Matenin riuscito a liberarsi e a fuggire lontano, fino in Libia. A differenza di Gimbala, lui non ha potuto salutare nessuno. E ora i suoi sono ancora l , a Kidal, che aspettano il momento per potersi ricongiungere al marito e al padre.

 

Stiamo in silenzio. Il presente adesso tutto l . In quell'assenza di parole, inutili di fronte al carico che hanno lasciato i racconti, rimasti appesi nella stanza in un groviglio di perch . A interrompere il peso, una domanda con una parola che suona magica. Desir in francese, monia in arabo. Avete un desiderio? I volti si sollevano. Tre paia di occhi si alzano verso il soffitto e poi fissano un punto lontano, indefinito, all'unisono, come diretti da un regista invisibile. Sorridono quei sei occhi per la prima volta dall'inizio della chiacchierata. Sorpresi perch stata data loro la facolt di desiderare. E come la scintilla con cui si accende il motore, il desiderio arriva di botto, inaspettato, con quel potere speciale che ti fa sentire un po' pi libero, un po' pi uomo. Travail, lavoro - dicono - e reunification, ricongiungimento. Inshallah, se Dio vorr .