Diritti
Sociale
5 maggio 2011
18:06

Piombino, lezione d'Africa nella scuola di Franciana

PIOMBINO (LI), 5 maggio 2011 - Che cosa so dell'Africa? Cosa conosciamo al di l di molti luoghi comuni e di qualche immagine da cartolina che riempie i cataloghi delle vacanze? Me lo chiedo mentre, da Firenze, cerco di raggiungere una scuola sperduta nella campagna attorno a Piombino, bloccato, in una lunga coda per un tamponamento, sulla superstrada per Livorno. Scorro l'elenco con i nomi di questi quaranta ragazzi, arrivati con un pullman il giorno prima da Foggia. Hanno tutti tra i venti e i trentasei anni. Molti sono nati stranamente il primo gennaio. Ma sull'esattezza delle date non c' da contare, mi conferma pi tardi Majid, il mediatore tunisino assegnato alla scuola. Tutti e quaranta chiedono asilo. Guardo allora i paesi di origine: Ghana, Burkina-Faso, Nigeria, Costa d'Avorio, Camerun, Guinea ... Tante ex colonie francesi, qualcuna inglese, altre per un po' tedesche ... "Cosa so dell'Africa?" mi chiedo ancora. E me lo chiedo di nuovo, quando, diverse ore pi tardi, riparto dalla scuola di Franciana e quei ragazzi, braccati dalla guerra, mi salutano, mentre aspettano il medico dell'Asl che infatti incrocio in auto poco pi avanti, seguito da un autobus diretto a Follonica. Ne sono stati assegnati due: uno ogni venti. Aspettano divisi a gruppetti, perch tra gli uni e gli altri non mancano sospetti, rancori e divisioni culturali: ci sono nella piccola Italia, figuriamoci nell'immensa Africa. Qualcuno di loro va in avanscoperta, lungo la strada fiancheggiata da cipressi e prati verdi che dalla scuola punta verso il mare, che non si vede. I cancelli sono aperti e attaccate alla rete tutt'attorno al giardino ci sono scarpe da ginnastica, maglie e pantaloni ad asciugare. Qualcun' altro gioca a pallone, che accomuna un po' tutti.

 

L'Africa attorno a noi

Mi chiedo cosa so dell'Africa, per l'ultima volta, e devo ammettere di saperne davvero poco, anche se molte storie africane vivono ogni giorno attorno a noi, ma non abbiamo tempo e non ce ne accorgiamo. Dell'immenso continente conoscevo prima di oggi Abdou, un ragazzo senegalese, della provincia di Dakar,  che da anni, in via Martelli a Firenze, cerca di convincere i passanti, sempre pi di fretta, a fermarsi per vendere loro un libro: sull'Africa e gli africani, naturalmente. E' venuto in Italia per sfamare la famiglia. A gennaio il suo piccolo Murtata ha compiuto quattro anni e da quando nato l'ha potuto vedere solo due volte: perch tornare a casa costa e sarebbero soldi tolti alla famiglia. Dell'Africa conoscevo una storia d'amore, di un compaesano che andato in Ghana per una tesi sulla coltivazione del cacao ed tornato con la donna che da dieci anni sua moglie. Dell'Africa, di ritorno da Piombino, ora conosco tante piccole nuove storie, minuscole gocce nel mare raccolte in quel piccolo arcobaleno di nazionalit e culture diverse riunite per qualche settimana nella piccola scuola elementare di Franciana, da dieci anni usata saltuariamente per campi estivi ed ora tornata a vivere. Non la savana: solo una vasta campagna un tempo molto popolata ed ora assai di meno. Non l'Africa. Ma per questi ragazzi gi diventata un po' casa.

 

Spinti sui barconi dalle milizie di Gheddafi

I ragazzi appunto: i protagonisti veri del nostro racconto. Con le loro storie si potrebbero riempire taccuini di appunti. Non tutti per hanno voglia di parlare. Qualcuno lo fa e all'improvviso la voce si strozza in gola: troppo forte ancora il dolore, per i cari rimasti in Libia o fuggiti non si sa dove. Altre volte proprio difficile comprendersi, costretti ad arrangiarsi un po' in inglese e un po' in francese. Con esiti a volte incerti.

Molti di questi ragazzi non volevano scappare dalla Libia. L lavoravano e guadagnavano, anche bene. Sono stati costretti dalla guardie di Gheddafi: rastrellati notte tempo, derubati di soldi e documenti, fatti salire a forza sui barconi sotto la minaccia di un plotone con i mitra puntati. Sbarchi forzati in cambio dei bombardamenti subiti. Qualcun altro ha deciso invece volontariamente di scappare, ma solo perch costretto dalle bombe e dalla guerra civile. Non sapevano comunque dove sarebbero andati. Non sapevano dove fosse Lampedusa. In molti non si rendono conto neppure ora dove si trovino.

 

L'appello e la televisione

Quando arrivo alla scuola di Franciana, piccolo edificio su due piani, il vice questore ed alcuni agenti stanno facendo l'appello. I ragazzi sono tutti seduti attorno al lungo tavolo sistemato nel corridoio della scuola, trasformato per l'occasione in sala da pranzo. I poliziotti controllano le richieste d'asilo e, se ci sono incongruenze, cercano di correggere gli errori. "Scrivi dove sei nato?" chiede un poliziotto. Ma alcuni non sanno n leggere n scrivere e devono farsi aiutare. Majid, un tunisino che vive in Toscana oramai da trent'anni, fa da interprete.

Intanto in fondo alla sala altri ragazzi, che l'appello l'hanno gi fatto, guardano distrattamente un vecchio televisore. Senza audio, tanto in italiano. "Nel pomeriggio ne arriver uno pi grande con la parabola - spiega Gloria Mattanini, responsabile locale della Protezione Civile e dunque del campo. - Cos potranno sintonizzarsi sulle emittenti del loro paese". Per adesso i ragazzi devono accontentarsi. Qualcun altro va e viene dalle aule attorno, trasformate in camere da letto. Indossano tute e ciabatte. Basta un sacche tto di plastica a raccogliere tutto quello con cui sono scappati. Ma quasi tutti hanno un cellulare, che spesso squilla. E c' anche chi gioca con una videogioco portatile.

 

La stanza della preghiera

Al piano di sopra Yusif, un ragazzo del Ghana di 36 anni nominato "imam" da tutto il gruppo, canta nel frattempo il Corano. Sono bastati alcuni tappetti distesi sul pavimento per trasformare la stanza in una piccola moschea. I musulmani sono la maggioranza nella scuola-rifugio, trenta, ma ci sono anche dieci cattolici. Hanno chiesto copie del Corano e Bibbie in inglese e francese e sempre Gloria sta provvedendo. "Siamo stati avvertiti appena tre giorni prima dell'arrivo dei ragazzi e cos , su due piedi, difficile organizzarsi bene - confessa Ma siamo allenati". I ragazzi chiedono anche sale, pepe, peperoncino ed olio. "In Africa si mangia pi piccante e condito che da noi" spiega Majid. E cos per la sera vengono ordinate olio e spezie. "Quando sono arrivati ho chiesto loro di nominare un responsabile del campo, ma non hanno accettato racconta sempre Gloria Gi il fatto che fosse una donna a chiederlo non a tutti tornava". Alla fine il compromesso stato un referente per ogni diversa nazionalit . Le divisioni rimangono: forse anche questione di amicizie, oltre che di lingua, cultura e abitudini, anche se quasi nessuno prima dell'arrivo in Italia si conosceva. Sta di fatto che anche a tavola i quaranta ragazzi se ne stanno divisi, raggruppati a seconda del paese di origine. Ma la divisione dei compiti comunque funziona. C' anche un ragazzo compie gli anni, se la data sui documenti giusta. Ma nessuno lo sa e nessuno dunque lo festeggia.

 

Fughe obbligate

"Non pensavo di venire in Europa. Non ho scelto io di venire in Italia" confida uno dei quaranta ragazzi. Una confessione che si ripete pi volte. Storie simili, di rastrellamenti e spedizioni a Lampedusa come ritorsione. C' chi faceva il perito elettronico, chi il muratore, qualcuno il tecnico agricolo con una societ olandese. Tra loro c' anche un elettrauto della succursale della Peugeot in Libia. Pensi all'Africa come terra da cui solo si scappa ed emigra. Ma in Africa c'era e c' anche un'immigrazione interna. E molti emigravano in Libia.

Il primo ad uscire da gruppo e raccontare la sua storia Yusif Hamida Moro, l'imam del gruppo. E' nato in Ghana e in Libia, dove era arrivato solo a novembre, faceva il contadino: come molti altri. A Lampedusa sbarcato il 5 aprile, dopo due giorni di traversata su un barcone assieme ad altre 350 persone. Ma a Lampedusa c' stato solo un giorno e subito stato trasferito al centro richiedenti asilo di Foggia, dove rimasto un mese: stazione di transito, per lui e per molti altri. Ora vuole studiare l'italiano e rimanere qui.

Yeboah Fredrik, trentuno anni ed anche lui del Ghana, faceva invece il muratore nel suo paese. Si avvicina poi Daniel Ameyaw Bismark: stessa nazione, 24 anni, ed un lavoro alle spalle da saldatore. Come Osas Emuze, che di anni ne ha 36 ed arriva dalla Nigeria. Come Yusif Monkaila, 32 anni, che nel Ghana era un saldatore ma in Libia, dove era arrivato da pochino, si arrabattava raccogliendo ferro che poi rivendeva. In tanti fanno la corsa per scrivere sul mio taccuino il loro nome e dire qual'era il loro lavoro. Ho spiegato che sono un giornalista che vuole raccontare la loro storia. Ma sono convinto che qualcuno forse ha frainteso o magari pensa che cos , facendosi conoscere e raccontando cosa sa fare, potr pi facilmente trovare un lavoro. Come se riempisse un modulo all'ufficio di collocamento.

 

Alla ricerca di un lavoro

In pochissimi si conoscevano prima dell'arrivo in Italia. I pi hanno imparato a conoscersi nel mese trascorso a Foggia. In Libia infatti lavoravano in citt diverse: chi a Bengasi e chi a Tripoli, chi in altri posti ancora, anche se quasi tutti sono comunque partiti dal porto di Tripoli. Saliti, o fatti salire sulla barca, con quello che avevano addosso.

Momoni Ibrahim, 21 anni, racconta la prima storia pi drammatica. E' scappato dalla Libia, dopo aver rischiato la vita. Ma la sua stata una vita in fuga fin da piccolo. La mamma era della Costa d'avorio ed l che nato. Poi a sette anni si trasferito in Mali, il paese del babbo. Da cinque mesi si trovava in Libia. Nel Mal , dove ha lasciato un fratello e la moglie incinta di sei mesi, faceva l'imbianchino. In Libia aveva trovato lavoro in un'azienda che lavorava il marmo, di propriet di un graduato della polizia di Gheddafi. Andava bene. Poi il titolare stato ucciso, iniziata una sorta di faida tra fazioni e lui si trovato in mezzo a due fuochi. Ha avuto paura, scappato prendendo un taxi. I militari lo hanno fermato ad un posto di blocco, gli hanno sequestrato i documenti e lo hanno portato in un campo insieme ad altri africani. "C'era gente che piangeva" racconta ancora scosso. Li hanno portati al porto e fatti salire su un barcone: un giorno e mezzo in mare, poi lo sbarco a Lampedusa. I poliziotti di Gheddafi gli hanno rubato tutti i soldi. In Libia lui e gli altri lavoravano anche diciotto ore al giorno, ma in cinque anni potevano raccogliere i soldi per una vita e una casa. "Oro che sono in Italia, - dice - chieder asilo e cercher un lavoro qui. Cos'altro posso fare?".

 

La guerra civile in Costa d'Avorio

Ma la storia pi lunga e complicata sicuramente quella di Daou. Trentasette anni, arriva anche lui dalla Costa d'Avorio e racconta la prima persecuzione politica. La sua storia inizia in una citt nel nord del paese. "L sono tutti musulmani" spiega il ragazzo a Majid, il mediatore tunisino che diventato la voce degli immigrati della scuola e l'amico a cui si rivolgono per piccoli e grandi problemi. Lui e un altro ragazzo, tunisino immigrato della prima ondata all'inizio di aprile e subito assoldato dal Comune.

"Stavo per iscrivermi all'universit racconta Daou Poi tutta la vita si incasinata". Daou si trasferisce con i genitori nel sud del paese, che economicamente se la passa meglio. Faceva stampe e disegni sui vestiti. Ma al sud quelli del nord sono malvisti e vittime di soprusi. Questioni d'etnia ce ne sono una sessantina diverse, nel paese - questione di religione. Questioni anche economiche. E per Daou la vita da subito si fa difficile. "Ci trattano come se fossimo venuti a rubare il loro lavoro" racconta. Cos entra nell'Rdr, l'Unione dei repubblicani, il partito per lo pi formato da ivoriani del nord. "Vuoi davvero conoscere tutta la mia storia? E' lunga" chiede Daou.

 

La bandiera della Costa d'Avorio ha quasi gli stessi colori di quella italiana: rovesciati, con l'arancione al posto del rosso. E il confronto politico da anni si trasformato in una guerra civile pi o meno latente. Ci sono scontri, assassinii e Daou scappa e torna in Mal , il paese di origine del padre. L conosce un uomo che per trentasei anni ha vissuto in Libia. Gliela racconta come l'America: un paese dove c' lavoro, a volont . E cos , otto anni fa, emigra in Libia e, tempo due settimane, trova lavoro in un'azienda agricola che coltiva pomodori. "Non mi sono mai sentito bene come in Libia racconta L ho imparato un mestiere". E guadagnava anche tanti soldi. "Alcuni amici mi dicevano: vieni in Italia. Ma che ci venivo a fare? - dice Un giorno volevo anche tornare in Costa d'Avorio". Ora in Italia, senza volerlo, e in Libia anzi in Tunisia, in un campo di profughi al confine meridionale ha lasciato la ragazza, ivoriana, che avrebbe dovuto sposare tra poco.

Il volto di Daou si fa cupo: preoccupato. Le nozze erano gi programmate. "Il mio datore di lavoro racconta mi aveva p romesso il visto e i soldi per il viaggio. Poi per scoppiata la rivoluzione". La futura moglie lavorava come donna delle pulizie per una famiglia inglese. "Sono scappati portandosi dietri il cane, ma lei l'hanno lasciata l , in balia delle bande armate. Ha rischiato di essere violentata o uccisa". "Le ho dato tutti i miei soldi per fuggire prosegue -, ma ora bloccata in un campo profughi. Non pu tornare in Libia, per le bombe e la guerra. Non pu andare in Costa d'Avorio, perch anche l si combatte". E in Tunisia sono gi entrati in 340 mila. Daou invece scappato da Tripoli con una barca. Erano in 251 a bordo. La navigazione verso Lampedusa stata tranquilla. Ora deve fare di necessit virt : pensa alla moglie, pensa a come potr arrangiarsi. Per prima cosa dovr imparare l'italiano. "Ma se domani la Libia sar di nuovo tranquilla tornerei volentieri l " confessa. Con la sua futura moglie, naturalmente.