21 gennaio 2019
20:40

Volti di famiglia

La famiglia Huppert, per esempio. Appese alle pareti della "Zauna",  l'edificio nel quale gli ebrei che avevano scampato la selezione e le altre persone che si avviavano alla detenzione venivano spogliate, rasate, lavate con getti di acqua gelida e poi tatuate, i numeri tornano ad essere un volto e talvolta una storia. Accade lì , dove ai tempi della deportazione uomini e donne da persone diventavano appunto numeri.

Quelle appese sono le fotografie di famiglia che i deportati si portavano dietro, convinti magari di essere trasferiti non in un campo di sterminio ma in un ghetto. Un nuovo ghetto, a volte. I ragazzi le scrutano e a volte leggono gli appunti di lato. Dovevano essere distrutte quelle foto, ma si sono salvate. Spesso solo l'unica cosa che rimane di chi ritraggono.  Su una pap Artur scrive sotto la foto del figlio Peter, neppure sei anni: "Possa vivere 120 anni". Un pugno nello stomaco e che stringe il cuore.

Come quella foto, scattata stavolta da nazisti, che lungo il sentiero nel bosco delle betulle ritrae una famiglia, bambini compresi, che sembrano in gita con i genitori. Mangiano. Appaiono tutto sommato spensierati. E invece neppure un'ora dopo finiranno in una camera a gas.

Perché non fuggirono? Perché non si ribellarono? La domanda nasce spontanea. E qualcuno, talvolta, magari ci provò anche. "Ma ragioniamo da uomini liberi quali oggi siamo ammonisce Michele Andreola, una delle due sole guide italiane ad Auschwitz Quei deportati invece non erano liberi."