24 gennaio 2017
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Il lager delle donne

Ravensbruck, per l'appunto. Se ne parler a Prato il 30 gennaio nella sala consiliare del palazzo comunale, in una iniziativa organizzata dal Museo della deportazione: con una testimone e un libro fotografico. Ne parla anche Liana Millu, scrittrice e reduce come Primo Levi; ed è il campo da dove ce l'ha fatta a uscire viva Liliana Segre.

Ravensbruck era l'unico lager tutto al femminile donne le prigioniere e donne le guardiane -, dell'intera Germania, aperto nel maggio 1939 a nord di Berlino. Vi venivano rinchiuse e torturate donne definite asociali: senza fissa dimora, malate di mente, disabili, testimoni di Geova, oppositrici politiche, attiviste della Resistenza, comuniste, giornaliste, zingare, lesbiche, vagabonde, prostitute, mendicanti, ladre e solo in minima parte ebree. Ci finivano quelle donne che erano considerate reiette e che andavano rieducate (quando possibile), oppure punite ed estirpate dalla società. Come un'erba che potesse infettare la purezza ariana.

In sei anni ci passarono più di 130 mila prigioniere, provenienti da venti paesi diversi. Non si sa quante morirono: almeno trentamila, forse novantamila. Prima della liberazione i registri del campo furono infatti distrutti. Si sa però cosa le donne subirono: sevizie, esperimenti, torture gratuite, sterilizzazioni, aborti e esecuzioni sommarie, oltre ai lavori forzati. Come un gruppo di studentesse di Lublino, cavie umane, azzoppate e mutilate per testare i farmaci destinati ai soldati al fronte. Le chiamavano "conigli". Oppure come quella madri a cui veniva permesso di dare alla luce i figli, per poi lasciare i bambini morire di stenti.

Una giovane polacca provò a far sapere al mondo quello che stava accadendo: scrisse degli esperimenti sul margine delle lettere inviate alla famiglia, con inchiostro invisibile. La madre, a capo di un gruppo della Resistenza, fece arrivare le informazioni in Svezia e di lì a Londra, che le girò alla Croce Rossa svizzera, che tuttavia le ignorò.