18 gennaio 2015
19:26

Vera: "Mai silenzio, sempre attenti a quello che ci accade attorno"

Vera:

FIRENZE - Squilla il telefono. La voce, alta e decisa, lievemente arrotondata da una vita in Sudamerica, corre lungo il cavo del telefono, dalla parte opposta del mondo. "La memoria rumore: rumore contro il silenzio dell'indifferenza, perché senza memoria e rumore quello che accaduto purtroppo può succedere di nuovo".

Vera Vigevani Jarach (la storia) ancora in Argentina. Il 20 gennaio sarà a Cracovia con i ragazzi del treno della memoria toscano, contenta perché "nel viaggio della sua vita i giovani sono una tappa importante e la Toscana nella storia una regione dove si sono consumati fatti importanti per la difesa dei diritti umani". Ma manca ancora una settimana e mezzo ed il giorno dopo il massacro in Francia alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, opera di un commando di estremisti islamici: la religione usata ancora una volta come schermo e scusa, offendendo lei e il suo Dio.

E' stata la prima volta l'anno scorso che ha raccontato le sue due storie insieme, quella del nonno e quella della figlia?

No. Le ho sempre messe insieme, in Argentina e soprattutto in Italia, perché le due storie dimostrano che quello che accaduto una volta può tornare ad accadere e la testimonianza ha un valore in più quando le due storie si sono registrate in una sola vita.

Ma qualcosa di diverso accaduto, al binario 21 di Milano da dove il 30 gennaio 1944 partito il nonno per Auschwitz.

C'è stato un momento speciale. Vedere quei tre vagoni in quel luogo di memoria, vedere il nome di mio nonno su quella parete ha provocato una sorta di schianto ed ho sentito la necessità di cambiare la linea del tempo nel racconto. Prima parlavo di mia figlia e poi di mio nonno. Era sbagliato ed ho invertito le due storie. Là è nato il mio viaggio nella memoria.

Ne è nato un progetto, con un secondo obiettivo

Sì, volevo infatti dimostrare e spero di essersi riuscita che nel caso di mio nonno e di tante altre migliaia di persone deportate e spesso non tornate le responsabilità non sono state solamente del nazismo. Certo il nazismo ha creato i campi di concentramento. E' terribile quello che hanno progettato nei minimi dettagli. Ma anche il regime fascista e gli italiani hanno avuto le loro responsabilità. Nella storia di mio nonno apparso chiarissimo. Ho fatto delle ricerche, con uno storico. Sono stato dove il nonno ha provato a varcare la frontiera. E le persone che lo hanno consegnato sono stati due italiani, quelli che dovevano aiutarlo a passare il confine e invece lo hanno consegnato ai fascisti.

Tra gli italiani ci sono stati per anche molti che hanno nascosto gli ebrei in soffitta o nei campi

E' vero. In Italia ci sono stati un'infinità di giusti che hanno rischiato la propria vita per salvarne altre. Nel mio viaggio documentario volevo insistere anche su questo.

Giusti che in Argentina sono mancati?

In quegli anni siamo stati contornati da molti tipi diversi di silenzio: un silenzio attorno a noi, delle persone fisicamente più vicine, e un silenzio internazionale. Il mondo diplomatico ha chiuso le porte. Letteralmente in qualche caso: l'ambasciatore italiano soffriva con fastidio quel codazzo di madri e cittadini di origine italiana che si recavano presso l'ambasciata di Buenos Aires a chiedere aiuto. Ma ci sono stati anche i giusti in Argentina, che hanno rischiato la loro pelle. E non tutto il mondo diplomatico si chiuso gli occhi. C'è stato un giovane console italiano, Enrico Calamai, che si adoperato a rischio della propria pelle e che ha salvato tanta gente.

Così al silenzio dell'indifferenza, che il primo terreno di coltura di discriminazioni e fondamentalismi, non si può che rispondere con una memoria rumorosa.

E' così: un rumore che vorrebbe suonare fortemente e percuotere la nostra anima e il nostro cervello per farci prendere posizione di non silenzio. Sempre. Perché mai silenzio e mai indifferenza dovrebbero esserci quando si palesano fatti terribili o anche quando solo si intravedono. Un insegnamento attualissimo anche oggi, in questi giorni, dopo quello che accaduto ieri in Francia (il massacro di un commando di terroristi islamici alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo ndr)

In che senso?

Credo nell'impossibilità dell'oblio, quando si tratta di grandi e gravi tragiche storie, e credo anche nella necessità di una memoria collettiva. Quello che successo ieri merita naturalmente il ripudio di tutto il mondo e si deve ad un fanatismo accentuato e a tanti altri fatti adesso non stiamo ad analizzare. Ma occorre stare attenti anche prima, ai sintomi, e dopo, a quello che può derivare. E' un po' quello che cerco di insegnare ai giovani. Mai paralizzarsi e mai indifferenza.

Squarciare il silenzio, ma senza soffiare sul fuoco?

Discriminazioni e razzismo esistono da sempre, in Europa come in America Latina che sono terre di emigrazione. Il problema quando, a seguito di grandi crisi sociali e economiche, si cercano capri espiatori. E' allora che quelle brutte storie possono diventare anche genocidi. Ed anche quando l'accoglienza stata discreta, non detto che il vento cambi. Prendiamo il rapporto tra la Germania e i turchi. Per anni sono stati accolti, perché necessari ai lavori più umili. Oggi sono invece oggetto di discriminazione. Tutto questo ai giovani deve essere raccontato, perché ne discutano e riflettano.

Ma c'è chi dice che i giovani di oggi sono egoistici e che pensano solo a loro stessi, incapaci di vivere per grandi ideali che il senso più alto della politica

Giovani egoisti? Affatto. Sono intelligenti i ragazzi, capiscono tante cose e sono preoccupati per il futuro, per loro e il loro mondo, questo tanto disastrato anche per colpa nostra. Se devo esprimere un giudizio, sono ottimista per la nuove generazioni: ottimista sulla volontà, come diceva Gramsci.

Torniamo indietro a prima della Seconda guerra mondiale. Lei non ha subito la deportazione, ma ha patito le leggi razziali? Cosa si ricorda?

L'essere cacciata da scuola per me fu un trauma fortissimo. Quando avevo dieci anni mio padre, che era un avvocato, mi portò davanti al tribunale per spiegarmi cosa fosse la giustizia. Passarono pochi giorni e mi cacciarono dalla scuola. Ero piccola, ma mi ricordo che protestai subito: "Non questa la giustizia che mi hai insegnato".

Fortunatamente l'Italia ai tempi del fascismo non fu monolitica nel male. Così dopo la cacciata dalla scuola "Morosini" e la maestra Cassini che era venuta di persona, con una sorta di atto di delicatezza, ad avvertirvi a casa, ci fu un'altra scuola elementare, quella di via Spiga che ancora esistono, e un maestro fascista e con l'orbace, il professor Angelo Bronzini, che decise di organizzare lezioni pomeridiane per i bambini ebrei assieme a cinque maestre israelite. Uno stratagemma messo su non senza rischi e con l'aiuto del presidente della comunità ebraica che si fondava su un regio decreto del 1938 che stabiliva che nelle scuole dove ci fossero stati più di dieci bambini ebrei era possibile aprire sezioni separate. Di fatto delle classi ghetto, anche se il diritto all'istruzione era salvo.

Sì ed ho capito che era una grande ingiustizia. Ho capito quello che stava succedendo: come lo poteva capire un bambino di undici anni, ma l'ho capito. E da quel momento tutto cambiato. Vedi le preoccupazioni dei genitori, ti fai domande, che sono diverse da quelle di un bambino, e la tua infanzia finisce.

Che domande?

Perché ad una guerra tremenda ne succede un'altra e poi un'altra ancora? Che senso ha la vendetta? Capisci l'importanza della partecipazione. Da l probabilmente nato il mio impegno nella vita ad essere pacifista e a decidere in ogni momento per la giustizia.

Giustizia, giustizia secondo Costituzione, che dopo la dittatura militare in Argentina avete aspettato pazienti

La vendetta non serve a niente, l'odio non serve a niente. Serve s la giustizia vera, che abbiamo aspettato a lungo ma ragionando, lottando anche: perché per parecchi anni di processi non ce ne sono stati. Prima infatti di essere testimone in un processo in Argentina lo sono stata in Italia, ma erano processi 'speciali' perché gli accusati non c'erano. Ma è stato importante, contro il silenzio.