Cultura
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13 febbraio 2020
3:13

Viaggio sul confine 'difficile': “Foibe e Shoah? Un confronto inaccettabile e impossibile”

Lo storico Cecotti spiega la differenza tra i due eventi. Poi alla Narodni Dom i cinquanta ragazzi toscani si misurano sui mali delle guerre, anche le più recenti nei Balcani, e sull'importanza della narrazione

Viaggio sul confine 'difficile': “Foibe e Shoah? Un confronto inaccettabile e impossibile”
Il pozzo di Basovizza chiuso da una piastra in acciaio

Le violenze ci furono, i crimini anche. Ma non fu “pulizia etnica” né genocidio. “Il parallelo tra le foibe e la Shoah è dunque inaccettabile” dice con fermezza lo storico Franco Cecotti. Una risposta netta la sua a chi, per pigrizia o strumentalizzazione, prova oggi ad accostare invece i due fenomeni.

“Ci sono decine e decine di studi sulle foibe che descrivono esattamente come e perché accadde e cosa c'era stato prima, gli archivi sono aperti e si conoscono i numeri. Eppure – dice ancora Ceccotti – molti giornalisti ed anche politici si affidano al facile sensazionalismo”. O cedono a ricostruzioni che nell'inchinarsi al dolore, doveroso, cadono in errori evidenti.

“La Shoah fu un disegno di persecuzione e sterminio programmato a tavolino", spiega lo storico. "Le foibe sono state invece semplicemente una delle violenze legate alla guerra, che non finisce mai in un momento preciso ma ha sempre strascichi che generano altre violenze”. Soprattutto in territori contesi ed abitati da popoli con lingue diverse come furono l'Istria, Trieste e la Venezia Giulia, soprattutto quando si esce da una periodo di dittatura e violenza come fu il fascismo. “La guerra rende tutti cattivi, da una parte all'altra del fronte. E il punto allora – rimarca Cecotti – è condannare la guerra”.

Il pomeriggio del secondo giorno del viaggio sul confine 'difficile' orientale è per i cinquanta ragazzi toscani del progetto della Regione tutto un andare avanti e indietro lungo la linea della storia, da una parte e dall'altra dei due margini di una stessa frontiera. Cambi di prospettiva repentini che aiutano ad abituarsi alla complessità della storia.

Si inizia a Basovizza, custode di due memorie e di due ricordi. E dopo Basovizza è la volta della Narodni Dom nel centro di Trieste, la casa della cultura slovena data alle fiamme nel 1920 dai fascisti, oggi sede dell'Università cittadina, per un confronto sull'importanza che nella memoria ha la narrazione e il racconto anche giornalistico.

A Basovizza il pozzo di una miniera abbandonata è diventato il simbolo di tutte le stragi compiute da parte jugoslava prima in Istria e poi nella Venezia Giulia: quasi cinquecento scomparvero nel 1943 ( i numeri li dà ancora Ceccotti) e solo 217 corpi in tutta l'Istria furono ritrovati, tra le quattro e le cinquemila persone svanirono nel nulla in due mesi tra maggio e giugno del 1945, alla fine della guerra, con soli 482 corpi ritrovati in 48 foibe del Carso ed altri 411 negli scantinati di Trieste.

Le violenze del 1943, dopo l'armistizio dell'8 settembre e lo sbandamento dell'esercito italiano, si verificarono in una situazione di insurrezione popolare. I croati colpirono quegli italiani che erano stati vissuti fino al giorno prima come oppressori: chiunque venisse riconosciuto come fascista – e magari neppure lo era stato – o faceva parte della borghesia rischiava grosso. Poi arrivarono i tedeschi, misero a ferro e fuoco l'intera Istria e l'insurrezione fu soffocata nel sangue, con duemilacinquecento morti di tutte le nazionalità.

Di diversa natura furono le violenze del 1945, quando l'esercito jugoslavo arresta tutte le persone in divisa: non solo militari, ma anche esponenti della guardia civica, carabinieri, questurini (come quei duecento che due preti sloveni videro a Basovizza, sottoposti ad un processo popolare), bidelli anche. Non furono arrestati o uccisi solo italiani. Furono colpiti tutti coloro che, presunti o tali, potevano mettere a rischio il progetto di Tito e la creazione di uno stato jugoslavo con Trieste e l'Istria. In diciottomila forse furono deportati, ostaggi per anni, e in 4-5mila non fecero appunto ritorno.

Ma Basovizza, a due passi dal confine in una piacevole radura carsica, conserva all'ombra di tre alberi anche il monumento a quattro eroi sloveni: quattro giovanissimi antifascisti condannati a morte, i primi, nel 1930 dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato fascista. In un migliaio ogni primo settembre si riuniscono per celebrarli. Due memorie, dunque, Due memorie a lungo non riappacificate, miccia per atti vandalici consumati nel tempo ai rispettivi monumenti.

Alla Narodni Dom, due ore più tardi, i ragazzi riflettono sulla giusta scelta delle parole e sull'importanza di sconfiggere l'indifferenza. Ragionano su quella che è stata la guerra di Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento, sul massacro (quello sì fu “pulizia etnica”) di ottomila musulmani a Srebrenica nel 1995, su come la guerra e la dissoluzione della Jugoslavia è stata vissuta in modo sofferto dagli sloveni d'Italia, su come i giornali 'di confine' hanno raccontato trenta anni fa quella guerra.

“Celebriamo la memoria, ma non nascondiamoci il presente: perché ci diciamo che non deve mai più succedere e invece succede ancora, di nuovo” li sprona Daniela Schifani-Corfini Lucchetta, vedova di Marco Luchetta, un giornalista morto sotto le bombe di Mostar in Bosnia Erxegovina assieme a due colleghi, promotrice di una fondazione impegnata nel loro nome a dare accoglienza ai bambini vittime delle guerre. “Come i bosniaci musulmani ieri – denuncia – ci sono oggi migranti in fuga verso l'Europa nascosti in quegli stessi boschi e che vivono nel terrore”.

Vicende personali si sovrappongono a vicende storiche. “Diffidate di tutto e di tutti, anche delle vostre prime sensazioni", raccomanda da buon giornalista, che deve essere custode di un racconto anzitutto onesto più che obiettivo, Pierluigi Sabatti, presidente del Circolo della Stampa di Trieste. “Approfondite – dice - e confrontate le fonti, anche e soprattutto in rete”.

In un confine 'difficile' come quello tra Trieste, la Slovenia e la Croazia, tre anni fa qualcuno si è chiesto quale potrebbe essere il confine giusto. Alekander Koren, giornalista del giornale della comunità slovena italiana, nonni e zii internati e confinati dai fascisti, non ha dubbi. “Non esiste un confine giusto in questa terra – dice - e noi abbiamo risolto il problema con una grande invenzione, con un'Europa che ha fatto cadere i confini. Teniamocela dunque cara questa Europa”.