Cultura
14 febbraio 2020
1:58

Viaggio sul confine 'difficile', la storia che aiuta a superare il rancore

Del Bello (Irci): “Gli italiani patirono una bestia a tre teste”. L'esule Dorigo: “Dobbiamo riconciliarci, per un futuro di fratellanza”. Barni: “I confini difficili vanno alla fine attraversati. L'odio non porta da nessuna parte”

Viaggio sul confine 'difficile', la storia che aiuta a superare il rancore
L'esule Livio Dorigo

Il luogo è il Magazzino 18, diventato un po' il simbolo dell'esodo degli italiani fuggiti dopo il 1945 dalla nuova Jugoslavia. Lui invece è Livio Dorigo, esule istriano che ha saputo superare il dolore della propria tragedia individuale e familiare e che invita altri a farlo, per ricucire le ferite prodotte dalla storia. Un percorso non facile, ma necessario.

Ieri era il terzo giorno del viaggio sul confine 'difficile' promosso dalla Regione e i cinquanta ragazzi toscani accompagnati da venticinque insegnanti varcano la mattina i cancelli del porto vecchio di Trieste. E' lì che, tra edifici appesantiti dal tempo e in disuso, sorge il Magazzino 18, 'riscoperto' otto anni fa con la piece teatrale di Cristicchi e visitato da allora, racconta Piero Del Bello, figlio di esuli e direttore dell'Irci, l'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata, da almeno mille gruppi.

Sali le scale che si annodano su pareti scalcinate, percorri i ballatoi, entri in locali dove il tempo pare essersi paralizzato in un iato di eternità - due orologi immobili su un tavolo, una vestaglia appesa sulla credenza della cucina, tavoli che aspettano inutilmente di essere apparecchiati e letti di essere vestiti di lenzuola e coperte – e la prima sensazione è quella del dolore. Percepisci in chi racconta, figlio di esuli, anche rancore per la storia subita, ma è comprensibile.

E poco importa che siano stati 250 o 350 mila gli italiani che fuggirono negli anni dalla Jugoslavia socialista di Tito, dove loro malgrado si erano dall'oggi al domani ritrovati, stretti nella paura o nel disagio, oppressi nella propria libertà di esprimersi culturalmente e nella lingua che da sempre avevano parlato. Poco importa alla fine che la stessa assimilazione forzata fosse stata subita da sloveni e croati sotto il regime fascista cinque, dieci o venti anni prima. Poco importa perché fuggirono: per timore (anche della vita), perché comunisti non si sentivano, perché (dopo il 1948) comunisti si sentivano ma non titini, traditi nella propria utopia come i duemila operai di Monfalcone che prima in una direzione e poi nell'altra attraversarono due volte il confine. Un fatto rimane: l'esodo di quegli italiani svuotò intere città e interi paesi, una chiave gettata al cielo e via, senza voltarsi indietro. E questo conta, come pure la guerra fredda, lo strappo di Tito da Stalin e i nuovi equilibri internazionali che l'affogarono nella nebbia. Tutto questo spiega il dolore e pure il rancore.

Raccontare l'esodo non è facile. “Storia complicata per chi non è di queste parti” ammonisce Piero Del Bello, che ricorda come, dopo l'insurrezione popolare e le violenze del 1943 patite dagli italiani, gli abitanti di Pisino in Istria salutarono come liberatori i tedeschi. Peccato che gli stessi tedeschi fecero poi migliaia di vittime, mettendo quei territori a ferro e fuoco. Neppure raccontare il Magazzino 18 è facile. Rischi di cadere nella trappola degli opposti estremismi. “Il dramma patito dagli italiani, per colpe non loro, fu una bestia con tre teste – sottolinea ancora Piero Del Bello -. O morivi, o fuggivi, o fuggivi ancora: nei campi profughi o all'estero, la fila ogni mattina per un piatto di minestra, l'odore di vestiti stantii e di capelli non lavati, figli di una storia sbagliata”. Puoi rischiare all'opposto, nel racconto, anche la banalità e la minimizzazione della sofferenza altrui.

“Dopo la visita l'impressione è quella di un grande dolore – confessa la vice presidente della Toscana, Monica Barni - : pensi a famiglie intere sradicate dai loro territori, costrette ad ammassare mobili ed effetti personali mai più ritirati e che poi hanno dovuto vivere tutto il resto della vita da profughi”. “Ma visitare il Magazzino 18 – aggiunge - è anche un momento per riflettere che i confini difficili vanno alla fine attraversati, per conoscersi e rispettarsi. L'odio non porta da nessuna parte”.

E allora? La via di uscita ce la suggerisce per l'appunto Livio Dorigo, un altro esule, che abbandona Pola nel 1947, presidente oggi del circolo “Istria” di Trieste, cresciuto tra Roma, Salerno e Perugia, una carriera da ricercatore e poi veterinario al Ministero della Sanità, anni a Cremona e Varese e poi, dopo il matrimonio con una fiumana, il resto della vita a Trieste.

“Se i ricordi – spiega ai ragazzi - non vengono elaborati dalla nostra ragione ma rimangono solo fenomeni emotivi non va bene. Il ricordo deve sublimarsi in sentimenti di pace, perché quello che noi abbiamo sofferto non venga trasferito e faccia soffrire i nostri figli e i nostri nipoti”.

“L'esule è come un albero sradicato. In parte appassisce” racconta. Il nonno di Piero Del Bello guardava dal campo e centro di raccolta di Padriciano fisso il mare. Altri affogarono il senso di vuoto all'osteria, molti finirono in manicomio. “Dobbiamo guardare ad un'Europa dove poter vivere tutti come popoli fratelli – dice Livio - Il sacrario dell'esodo che è diventato il Magazzino 18, ma anche la foiba di Basovizza, devono ispirarsi a questi sentimenti di pace, in cui il dolore occorre che si trasformi”. Per superare il rancore certo, ammette, occorre uno sforzo, forse anche doloroso. “La storia però ci può aiutare – spiega -: una storia capace di filtrare, depurata dalla memorialistica individuale e dalle emozioni del singolo. E in questo senso il Magazzino 18, che è testimonianza di quello che è successo, diventa anche un lente per guardare al presente e futuro, a quello che sta patendo ad esempio chi scappa dall'Afghanistan o da altri Paesi del Medio Oriente”. “Non possiamo essere indifferenti – conclude Livio - e un esule dovrebbe essere più vicino di altri alla sofferenza di queste persone”.