21 gennaio 2015
7:45

Il missionario mancato a capo del campo di Auschwitz

In fondo sognava solo di lavorare in una fattoria per coltivare la terra e allevare i cavalli. Rudolph Hoss, che dirigerà per quattro anni il campo di Auschwitz, che lo ha plasmato e lo ho fatto diventare quella macchina perfetta dell'orrore, da ragazzo sognava addirittura di fare il missionario.

Poi si arruolò nelle SS e non fece una piega davanti al milione di morti di cui fu responsabile. Con la convinzione del lavoro fatto e fatto bene.

Anzi viveva sereno nella sua casa lussuosa con vista sui forni crematori. La sera tornava a casa e, come se niente fosse, leggeva fiabe ai bambini, che con la moglie avevano trasformato quella casa con orto e giardino in un piccolo rifugio per animali. Ma i bambini giocavano anche a detenuti e kapò.

Istantanee simili ad altre scattate nel campo di concentramento polazzo di Janowska, dove nell'autunno del 1942 Elisabeth Will Hans, moglie del comandante, era solita sparare ai detenuti ebrei dal balcone di casa con accanto la figlia di sei anni.

Difficile rimanere indifferenti. Sembrano vite parallele incapaci di incontrarsi, esistenze inconciliabili. Ma la banalità del male.

La vita di Hoss raccontata ne "Il comandante di Auschwitz" di Thomas Harding (Newton Compton), libro che ripercorre la vita in parallelo del criminale nazista e dell'ebreo tedesco che, con la divisa dell'esercito inglese, alla fine della guerra riuscì a catturarlo. Hoss fu processato, confessò senza pentimento quanto aveva fatto e gli era stato ordinato di fare e fu poi impiccato in quello stesso lager di cui era stato comandante e boia.