Cultura
26 gennaio 2012
14:16

La guardiana mai pentita, il Bartali 'postino' e il pastore che difese i neri

La guardiana mai pentita, il Bartali 'postino' e il pastore che difese i neri

FIRENZE - "Mi hanno tolto l'uso della braccia e delle mani. Ho perso un occhio per l'esplosione e un timpano non funziona più tanto bene. Ma posso ancora usare la mia lingua", racconta padre Lapsey, pastore anglicano perseguitato dal regime razzista in Sudafrica. "L'unica arma automatica che ho mai usato", confessa. Ma a volte la lingua e il racconto sono più potenti di un mitra. Per questo occorre non dimenticare e farsi 'sentinelle' della memoria e dell'umanità. Per "costruire, tutti gli essere umani assieme, un mondo migliore", come sottolinea ancora padre Lapsey.

Dopo i perseguitati (e sopravvissuti) ai campi di sterminio nazisti la volta degli 'altri' sul palco del Mandelaforum: quelli che dal virus dal fanatismo sono stati colpiti e non sono mai guariti, "tra i mali peggiori" dice Helga Schneider, quelli che "hanno fatto quello che si doveva fare", come tagliava corto da buon toscanaccio Gino Bartali, ma che nell'indifferenza di tanti sono giustamente diventati eroi, quelli che sono nati da una parte, ma hanno scelto di fare un passo oltre la barricata, a loro rischio e pericolo, soprattutto "per recuperare la propria umanità".

Guardiana di Auschwitz per sempre: ecco mia madre

Inizia Helga Schneider a parlare per prima. Oggi fa la scrittrice e da sedici anni gira le scuole a portare la sua testimonianza. A quattro anni fu abbandonata dalla madre. "Pensavo che se ne fosse andata per un altro uomo" dice. Nel 1971, dopo la guerra ed un'infanzia difficile con una matrigna che non l'aveva mai accettata, il primo incontro: in treno da Bologna a Vienna, con il figlio a cui voleva far conoscere la nonna. Ed è là che scopre che la madre in verità se ne era andata per servire il Fuhrer da ausiliaria e guardiana al campo di Auschwitz.

"Mia madre tirò fuori un'uniforme gelosamente conservata nell'armadio: "ho sempre sperato di vederla indosso a te" disse. Le chiesi dove la indossava, cosa faceva. E fu un shock: perchè il nazismo costringeva a fare tante cose, ma non ad arruolarsi come volontaria, e mia madre scelse di farlo. Scelse e nel 1971 ancora non ne era pentita. Me ne resi conto dopo quaranta minuti. Parlava del vuoto provato dopo la morte di Hitler, non una parola per me e i patimenti durante la guerra". Così Helga trova una scusa, se ne esce di casa e torna a Bologna. Rivedrà la madre solo un'altra volta, nel 1998. "Ed anche allora dice si sentiva ancora guardiana". "Questi sono gli effetti del grande male che il fanatismo: quel fanatismo per cui un popolo intelligente come quello tedesco si lasciato incantare da un austriaco che neppure voleva fare il militare per difendere il suo paese e che diventato tedesco solo nel 1932".

Gino il 'postino', premiato con il Pegaso

Mentre Helga abbraccia sul palco le vittime di una follia di cui la madre stata complice, la parola passa ad Andrea Bartali, il figlio del famoso Gino, campione toscano di ciclismo. La storia che racconta diventata un film, qualche anno fa. Gino fece il 'postino' di una rete clandestina su richiesta dal cardinale Elia Dalla Costa: più di cinquanta viaggi. Macinò chilometri e chilometri con la sua bicicletta nascondendo documenti falsi e soldi nella canna della bicicletta prima da Firenze a Lucca e Genova, poi da Firenze ad Assisi, 360 chilometri al giorno; una volta fu anche fermato - e in questo modo contribuì a salvare più di ottocento ebrei in Toscana.

Per molti anni questa storia era rimasta segreta. "Ho fatto quello che si doveva fare e finchè sarò vivo non voglio riconoscimenti", rispose da buon toscanaccio, anche un po' burbero, Gino Bartali una ventina di anni fa ad una giornalista dell'Unità che lo voleva intervistare. "Il bene si fa e non si dice, mi insegnava il babbo", racconta oggi il figlio. "Perchè la più grande vigliaccheria speculare sulle disgrazie altrui, ripeteva". Ma la storia è vera e documentata. E per quel gesto di eroismo spontaneo la Regione Toscana ha consegnato oggi al figlio un riconoscimento alla memoria.

In Sudafrica a difesa dei neri

Ci sono incubi che a volte non sembrano mai scomparire. Dopo il nazismo c'è stata la Cambogia e la strage degli armeni, l'apartheid in Sudafrica e molti altri ancora. E' l'uomo che distrugge altri uomini. Ma in questo scontro c'è anche chi decide di passare dalla parte degli oppressi. "Per me il bianco era come la lebbra", racconta padre Lapsey che in Sudafrica arrivato nel 1973, perseguitato per il suo impegno contro l'apartheid, malvisto dagli altri bianchi e per questo mutilato anni dopo con un pacco bomba. "Ci dicevano di essere traditori. Noi eravamo semplicemente leali alla razza umana" racconta. "Le mie ferite fisiche sono il segno dei quello che il male e l'odio possono fare dice Più evidenti delle ferite che molti altri hanno dentro". "Ma la mia storia - conclude - è anche il segno di come la comprensione, la compassione e la giustizia sono più forti del male e della morte. Speriamo solo di poter costruire un mondo migliore". Ed per questo che non bisogna dimenticare mai.