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27 gennaio 2023
18:07

Giorno della memoria, i sopravvissuti si raccontano agli studenti toscani

Dal vivo, davanti a ragazze e ragazzi, dopo due anni di pandemia 

Giorno della memoria, i sopravvissuti si raccontano agli studenti toscani

Dopo Maria Vittoria D’Annunzio, presidente del Parlamento regionale degli studenti della Toscana, è il momento dei sopravvissuti ad Auschwitz sul palco del Teatro della compagnia di Firenze, nel giorno della memoria toscano: prima Tatiana Bucci e poi Lidia Maksymowicz. Tutte e due erano bambine quando furono deportate, come anche Kitty Braun Falaschi, che che non è potuta essere presente e racconta,  in un video registrato nei giorni scorsi, la sua storia. 

Non vola mosca nel teatro quando Tatiana inizia a parlare ricordando quella notte di fine marzo 1944 in cui tutto per loro è cambiato. Gli occhi dei ragazzi sono fissi su di lei. 
Parla della nonna inginocchiata, a supplicare tedeschi e fascisti italiani che portassero via lei e non la nipote e la figlia. Tatiana aveva sei anni e quattro la sorella Andra. Si assomigliavano tantissimo e fu la loro fortuna, perché il dottor Mengele cercava per i suoi studi ed esperimenti soprattutto gemelli e non finirono così all’arrivo ad Auschwitz nelle camere a gas. Racconta di come fossero ammassati nel convoglio che le portò da Trieste al campo e del secchio in un angolo per fare i bisogni. Storie simili a quelle di tanti altri deportati. E poi l’arrivo: i cani che abbaiavano (una delle sorelle ne ha ancora terrore), la selezione sommaria e gli inabili ed anziani (come la nonna) subito incolonnati verso la morte, la spoliazione di ogni bene, le donne rasate, la mamma che diventava sempre più magra  e che avevano paura ad abbracciare. Tatiana rievoca anche la tragedia del cuginetto Simone, che dalla deportazione non ha mai fatto ritorno e quello che è successo dopo la liberazione del campo: i mesi passati in Cecoslovacchia, poi l’orfanotrodio in Inghilterra e il ritorno a casa, con le famiglie delle comunità ebrauica romana a chiedere loro se avessero incontrato i loro figli deportati e non tornati. 

Kitty Braun, classe 1936, esule fiumana dopo la guerra a Firenze, dove ha insegnato a lungo alle scuole medie e dove tuttora vive, aveva nove anni quando fu arrestata e deportata. “Fummo discriminati perché ebrei – dice – Il babbo perse il lavoro in banca e io non potei più andare alla scuola pubblica”. Il giorno del suo compleanno era sul treno che la portava a Ravensbruck. La mamma barattò con alcune partigiane un uovo e un po’ di zucchero in una tazza e preparò per lei, il fratello e il cugino Silvio una zabaione. “E fu festa” ripete ogni volta Kitty. Dopo Ravesnsbruck fu trasferita a Bergen Belsen, il campo di Anna Frank.  Costretta a starsene per giorni seduta con le gambe piegate, aveva gli arti quasi atrofizzati quando il campo fu liberato. Ricorda l’ odore nauseabondo della zuppa di rape, che provocava spesso diarrea, e il fratello, che morirà subito dopo la liberazione, che si era ammalato di tubercolosi e piangeva perché voleva la mamma. Durante il giorno i bambini rimanevano da soli in baracca.  “Stavo appoggiata sotto, al muro, e raccontavo ogni giorno novelle che inventavo – ha ricordato altre volte – Le raccontavo a mio fratello e a mio cugino, gli unici che potevano comprendere l’italiano. Ma anche gli altri bambini si avvicinavano e stavano ad ascoltare”. Anche se non capivano, infondeva a tutti serenità.

La storia di Lidia Maksymowicz, deportata ad Auschwitz quando non aveva ancora compiuto tre anni perché la madre aveva aderito alla Resistenza bielorussa. Anche Lidia, nata a Leopoli ed oggi cittadina polacca, finisce nella “baracca dei bambini” da cui il dottor Mengele prelevava le cavie per i suoi orribili esperimenti.  

La sua storia di deportata è simile a quella di tanti altri: gli orrori del campo, la mamma – poi trasferita altrove -  senza capelli che la spaventava e di cui si ricorda solo le mani e non la faccia, gli insetti.  Dopo la liberazione fu adottata, come altri bambini, da una famiglia polacca. 

I segni di Auschwitz  ancora però si sentivano: Lidia giocava spesso ‘ai bambini nel campo’, dividendo quelli che dovevano sopravvivere da chi doveva invece andare nelle camere a gas. “Facevo paura ai miei compagni e ai loro genitori” confessa.  La mamma intanto la cercava in Russia, perché si raccontava che lì erano stati portati i bambini sopravvissuti. Ma solo dopo diciassette anni si ricongiuranno. Una bella foto in bianco e nero immortala il momento dell’incontro, con la due mamme che tendono la mano attorno a Lidia e si abbracciano. 

Oggi Lidia è una testimone della memoria. “Nonostante le violenze subito comunque non provo odio – racconta – Odiando non potrei infatti trasmettere il mio messaggio”.  

Intanto il meeting si avvia a conclusione. Tre video raccontano la deportazione degli omosessuali, l’internamento e l’eliminazione fisica delle persone con disabilità, la deportazione di rom e sinti: a Birkenau nel cosidetto 'campo degli zingari' vi furono reclusi in ventitremila per poi essere sterminati in pochi giorni, gli ultimi 2987 in una sola notte. C’è spazio anche per il racconto del pianoforte di Maja Einstein, sorella di Albert Eistein, all’Osservatorio astrofisico di Arcetri a Firenze.  E poi Luca Baravi dialoga con Silvia Cardini, il cui nonno, Bruno Baldini, antifascista perseguitato politico, fu deportato a Mauthasen.  Una pietra d'inciampo posata l'anno scorso a Firenze lo ricorda. Silvia è un esempio di come la memoria  possa essere tramandata. Di generazione in generazione. "Anche mio figlio, che pure è arrivato qui all'età di cinque anni  ed è vietnamita - conclude - sente sua la storia del nonno e si sente profondamente antifascista".  La memoria appartiene ad un'intera comunità, che la deve custodire e prendersene cura.  


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